Il centrosinistra stava cercando il suo nuovo Prodi, ma intanto ha ritrovato il suo caro vecchio D’Alema. Ma vecchio a chi? Per ascoltarlo nella sala dei Frentani, storica sede del Pci, si sono premuti in centinaia senzatetto della sinistra, orfani e vedove del Pd ante-Leopolda, cigiellini referendari, militanti della mitica base arrivati da mezza Italia in treno o con i pullman. C’è lo stato maggiore di Sinistra italiana, coté pro centrosinistra ma ci sono anche quelli a cui ormai la coalizione fa venire le bolle. Assemblea ordinata e old fashion, senza effetti speciali. Apre l’avvocato Guido Calvi, presidente dei comitati del No. Oratori pochi e scelti (Cgil, Arci, il giovane emergente Tommaso Sasso) chiamati sul palco dall’efficiente Piero Latino, giovane uomo-macchina ma vecchia scuola. Nelle prime file qualche antica conoscenza: Valdo Spini a cui l’ex premier fa un affettuoso omaggio (qui tutti si definiscono socialisti, un riconoscimento a chi era del Psi è il minimo), quel Cesare Salvi che nel ’98 D’Alema nominò ministro con l’indimenticabile «A’ Giospèn, facce vede».

D’Alema, al passato né a quello remoto dov’è indelebile il blairismo da cui pure si giura redento, né quello prossimo dell’impegno nel No al referendum: «Questa non è una celebrazione della vittoria, il dibattito lo hanno chiuso 20 milioni di persone». Anzi ora «il discrimine non è più fra Sì e No». Piuttosto fra Renzi sì e Renzi no. La scomposizione dell’«amalgama malriuscito». O meglio un fronte: l’Unione era contro il Cavaliere, oggi il Cavaliere è un’anziano signore malmesso ma ragionevole. E invece il giovane ex premier Renzi va in cerca della bella morte. O «dell’inciucione». D’Alema sfotte il suo ex allievo Orfini («Dice al voto al voto, come a Roma») e il capogruppo Ettore Rosato («La consulta ha confermato l’impianto dell’Italicum? Ci vorrebbe uno col camice bianco»).

«Questa è una riunione di lavoro», spiega il presidente di Italianieuropei, in cui i comitati del No si trasformano nell’associazione «Con-senso», scritta verde ma avrà in rosso il sottotitolo «per un nuovo centrosinistra». Nome temerario per una scissione (non ce n’è una andata bene a sinistra, a parte quella del ’21). Programma invece semplice e socialista: lotta alla diseguaglianza, crescita, diritti, lavoro. Zero merchandising, il vero brand è D’Alema. Che non lancia ancora un partito, cioè non apre il tesseramento – sarebbe tecnicamente la scissione dal Pd per molti dei presenti – ma invita significativamente alla raccolta fondi: «Dobbiamo essere pronti alle evenienze che potranno esserci». Manca la parola in codice dell’insurrezione. Ma non serve, perché è tutto alla luce del sole. Le evenienze infatti sono due e sono due piani A.

La prima è la «precipitazione» verso le elezioni con la legge elettorale uscita dalla Consulta che produce un altro parlamento di nominati. «Se ci troveremo di fronte alla sordità di un gruppo dirigente e prevarrà l’idea di andare ad elezioni senza un progetto politico e di governo, con l’obiettivo di normalizzare il Pd e ridurre i gruppi parlamentari all’obbedienza», avverte D’Alema, «allora deve essere chiaro: una scelta di questo tipo renderebbe ciascuno libero». No, non tutti, carica da consumato oratore: «Alcuni di noi, che ritengono di avere responsabilità nei confronti della sinistra italiana, non sarebbero neanche liberi di decidere. Avrebbero il dovere di agire».

La seconda  «evenienza» è che il governo Gentiloni vada avanti e che in novembre il Pd arrivi al suo congresso. E lì il fronte antirenzista se la dovrebbe giocare, ammesso che riesca a «fare sintesi». Non facile. Dal palco il candidato bersaniano Roberto Speranza si scaglia contro il «partito di servi» che si costruisce con le liste bloccate, «quello non sarebbe il Pd». La platea scafata sa bene che significa: decimazione delle minoranze nelle liste, Pd compiutamente renziano, scissione certa. E scatta l’ovazione. Ma parla anche Enrico Rossi, altro candidato alla segreteria Pd, anche lui vicino a D’Alema. E arriva il messaggio di Michele Emiliano, pure lui anti-renziano e pure lui tentato dalla corsa. È la sinistra, bellezza: uniti mai. D’Alema però non nutre fiducia nel buon esito del congresso: «Se alle elezioni si andasse con una lista che va oltre i confini…», ma sottolinea se. Si vedrà.

Per il momento raccoglie con pazienza tutto l’antirenzismo in circolazione a sinistra. Per tutta la mattinata resta seduto con il costituzionalista Alessandro Pace, presidente del comitato del No dei «professori». In sala c’è anche l’avvocato Felice Besostri, l’uomo che ha fatto saltare il Porcellum. Sul palco viene invitato a parlare il costituzionalista Roberto Zaccaria. D’Alema spende una buona parola persino per l’ex sindaco Pisapia che all’inizio aveva definito «fiancheggiatore di Renzi» mentre adesso – nota – «ha cambiato rotta». Fra «chi fa riferimento al centro sinistra» indica due partiti, «il Pd e Sinistra italiana». In realtà non è precisamente così. Dal palco parla Arturo Scotto, capogruppo e candidato a congresso, fan di un centrosinistra derenzizzato. Ma in platea circola Nicola Fratoianni, il candidato di Vendola il quale a sua volta in questi mesi ha criticato (autocriticato) praticamente tutto delle coalizioni a trazione prodiana, dalemiana e infine bersaniana. Ma questa sarà un’altra storia, quella del congresso del 17 febbraio.

Intanto la prossima settimana Consenso sceglierà un coordinamento. In attesa che Renzi faccia le sue mosse. Del resto così è andata la vittoria del No: ha fatto tutto Renzi. Ed è stato una benedizione. Per i suoi avversari.