Cambio di modello?

Dal 2007, il governo cubano sta applicando una serie di misure economiche che hanno provocato un vivace dibattito dentro e fuori l’isola. Nella denominazione ufficiale del processo di trasformazioni economiche si evidenzia l’idea di “attualizzazione del modello”, con il chiaro obiettivo di provare a differenziarsi dalle transizioni al capitalismo dell’Unione sovietica e dell’Europa dell’Est. Si pretende, infatti, mandare il messaggio che ciò che si sta “attualizzando” è il modello socialista. Tuttavia, una gran parte dell’establishment cubano è convinta che il cambio economico sia profondo. José Luis Rodríguez, ex ministro dell’Economia, riconosce che le trasformazioni economiche in corso “sono le più complesse di tutta la storia rivoluzionaria”. Juan Triana, tra gli economisti più prestigiosi del momento, avverte che il cambiamento è olistico e che viene accompagnato da “profonde trasformazioni istituzionali”. Il famoso intellettuale Rafael Hernández afferma poi che il cambio è anche politico e ideologico.

Perché?

La leva fondamentale per promuovere il cambio economico è l’ampio consenso sociale rispetto al declino del modello attuale. Questa percezione, seppur manifestata in maniera più o meno esplicita, è trasversale: dalla base fino alla élite politica e accademica. Antonio Romero, membro dell’Università de La Havana, ricorda che le più alte autorità del paese hanno spinto per il cambio a causa dei “problemi strutturali” che caratterizzano l’economia cubana. Infatti, lo stesso Raúl Castro ha dichiarato che il tempo di “costeggiare l’abisso” è scaduto.

Mentre negli anni ’90 la crisi economica fu interpretata come prodotto di fattori esterni (caduta del campo socialista e irrigidimento del blocco economico statunitense), oggi si considera un problema essenzialmente interno. Jorge Sánchez Egozcue, del Centro de Estudios de la Economía Cubana (Ceec), elenca solo alcuni dei problemi endemici del modello, che sono già stati riconosciuti dal Partito comunista cubano: eccessiva centralizzazione, paternalismo statale, sussidi massicci a livelli insostenibili, forte indebolimento del settore agricolo e industriale…

Fasi del cambio

Se il cambio più recente comincia solo nel 2007, l’origine del processo risale a 25 anni fa. La prima fase iniziò negli anni ’90, nel contesto del famoso “Periodo Especial”, e le misure fondamentali furono: apertura agli investimenti esteri e creazione di imprese miste, legalizzazione del lavoro privato autonomo (por cuenta propia), creazione di nuovi settori strategici (turismo, biotecnologia, servizi medici), spinta alla creazione di cooperative agricole, depenalizzazione del dollaro e regolarizzazione delle rimesse che arrivavano dai cubani all’estero.

Una seconda fase si apre sul finire del decennio quando, secondo Omar Pérez Villanueva, ricercatore del Ceec, si realizza un processo di riaccentramento imprenditoriale e si paralizzano le licenze per il lavoro autonomo, in un contesto caratterizzato dall’avvicinamento al Venezuela e dall’inasprimento del conflitto con Washington (governo di Bush).

La terza fase inizia con l’arrivo di Raúl alla presidenza (2006-2007). Juan Triana divide quest’ultimo periodo in varie tappe. Un prima, fino al 2009, orientata a “risolvere urgenze”: aumentare la produzione agricola e ridurre l’importazione di alimenti mediante la consegna di terre a contadini privati; generare più fonti d’occupazione con la creazione di nuovi posti di lavoro autonomi; e eliminare una serie di divieti storici (acceso a alberghi, compravendita di case, telefoni cellulari…)

Un secondo momento (2010-2011) nel quale dopo un dibattito partecipato da milioni di persone l’Assemblea Nazionale e il Pcc approvano il documento “Lineamentos de la Política Económica y Social”: una vera e propria road map per il cambio. Solo successivamente, Raúl Castro pronuncia lo storico discorso in cui afferma la volontà nazionale di costruire “un socialismo prospero e sostenibile”.

Socialismo “prospero e sostenibile”

L’aspirazione del presidente di costruire un paese “prospero e sostenibile” suppone il riconoscimento che il socialismo attuale non ha queste due qualità essenziali per qualsiasi sistema sociale.

L’innegabile problema migratorio –di lavoro qualificato e dei giovani- è accettato come uno dei fattori che evidenza la mancanza di un orizzonte prospero per una percentuale importante della popolazione. Inoltre, la prosperità si associa sempre di più con la possibilità di percepire un salario adeguato ai costi regolari della vita quotidiana, cosa non garantita dagli attuali stipendi statali. Parallelamente, la difficoltà di rendere sostenibile il modello economico si evince dai bassi livelli di produttività. Miguel Figueras, Premio Nazione per l’Economia nel 2007, sottolinea che la produttività industriale non supera il 50% del livello degli anni ’80.

La maggioranza degli economisti segnala che sarà fondamentale nei prossimi anni accelerare la crescita economica. Una visione che se a alcuni settori della sinistra europea può sembrare priva di senso, a Cuba è pienamente centrale per due ragioni: il limitato volume di ricchezza da distribuire e la forte aspettativa sociale per migliorare il livello di vita, assolutamente legittima, della stragrande maggioranza della cittadinanza cubana. Infatti, gli sforzi richiesti dal confortevole estero possono apparire estremamente frivoli e irritanti per il cubano medio.

La spinta per la crescita è associata all’aumento dell’investimento e, specialmente, con gli investimenti esteri, un tema che provoca molte polemiche. L’impossibilità di accedere al finanziamento internazionale tradizionale (agenzie multilaterali) pressa ulteriormente il governo a cercare soci stranieri disposti a investire nell’isola. La costruzione della Zona Speciale per lo Sviluppo del Mariel, a pochi chilometri dalla capitale, con l’appoggio diretto del capitale brasiliano, aspira a diventare un polo d’attrazione per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, spiega Triana.

Come?

I meccanismi principali per promuovere il nuovo modello sarebbero la decentralizzazione, la destatalizzazione parziale e un nuovo paradigma per la distribuzione della ricchezza. Secondo il giornalista economico Ariel Terreros, la decentralizzazione della gestione è un aspetto chiave del processo, non per privatizzare ma per essere più efficienti. Questo processo di decentralizzazione si concretizzerebbe in due direzioni: trasferendo potere decisionale alle imprese pubbliche per renderle più partecipative, competitive e autosufficienti; assegnando maggior potere ai municipi. In questo senso, promette bene l’esperimento di gestione locale autonoma e decentralizzata che si sta sviluppando nei municipi di Artemisa e Mayabeque, e che vuole estendersi al resto del paese.

La destatalizzazione parziale, o in altri termini la deconcentrazione delle proprietà, è un altro pilastro. Due forme di proprietà non statale si considerano necessarie e complementari nei “Lineamentos de la Política Económica y Social”. Anzitutto, il cooperativismo, inteso come proprietà sociale e quindi come alternativa per costruire un altro modello di socialismo. Infatti, per Gilberto Valdés, dell’Istituto di Filosofia, il processo di destatalizzazione è guidato dalla volontà politica di assegnare la proprietà alle cooperative e non al settore privato.

Il piano di rafforzamento delle cooperative è iniziato nel 2013 e il suo obiettivo principale è la creazione di cooperative anche al di fuori del settore agrario. Fino al momento, la maggior parte delle cooperative (alcune centinaia) sono nate nel settore dei servizi (ristoranti, trasporti…) mentre la presenza nell’industria è molto bassa. D’altro canto è utile notare che la creazione e consolidazione di un economia cooperativa sta soffrendo notevoli ritardi, giacché il processo è soggetto a una logica estremamente burocratica e centralizzata. Infatti, per aprire una cooperativa è necessaria sempre l’approvazione definitiva del Consiglio dei Ministri, assicura l’analista politico Manuel Orrio. A tal proposito, Fernando Ravsberg afferma che le licenze per aprire un’attività autonoma si assegnano più rapidamente (circa 15 giorni) rispetto al procedimento che serve per legalizzare una cooperativa, che invece può richiede vari mesi.

L’altro attore rilevante nello schema di proprietà è il cuentapropista. In realtà stiamo parlando di settore privato, sia per quanto riguarda il caso del lavoratore autonomo che del piccolo imprenditore. Ma se negli anni ’90 il lavoro autonomo era visto come un male minore, attualmente è considerato un fattore decisivo per lo sviluppo: un drastico cambio di visione del governo.

Dopo la concessione di nuove licenze, il numero di lavoratori autonomi è aumentato sostanzialmente negli ultimi 4 anni, passando da 150 mila a quasi mezzo milione di persone nell’attualità. J.L. Rodríguez precisa che l’impiego non pubblico rappresenta il 26% e in un futuro prossimo potrebbe raggiungere il 35%. Persino nel settore dell’agricoltura, si prevede che lo Stato non produca più del 20% delle terre, lasciando il resto nelle mani di cooperative e privati, spiega il sociologo Juan Valdés Paz. Lo Stato manterrà comunque il controllo della proprietà e quindi il controllo dei settori strategici dell’economia.

Il nuovo paradigma di distribuzione della ricchezza proposto dal nuovo modello prevede invece il passaggio da uno schema di ripartizione altamente centralizzato e statale a una nuova equazione in cui avranno maggior peso i salari, le tasse e una politica sociale ridefinita. Questo significa che il salario deve diventare il meccanismo principale di accesso al benessere sociale e che il sistema tributario avrà sempre più importanza.

Infine, si cerca una nuova politica sociale consona ai tempi che corrono: viste le importanti disuguaglianze esistenti tra diversi strati sociali, il sussidio universale (come la tessera di razionamento per esempio) è divenuta un meccanismo ingiusto. L’esperta in tema di disuguaglianza, Mayra Espina, individua i gruppi più vulnerabili che dovranno essere oggetto di particolari attenzioni nei prossimi anni: per genere (donne), per etnia (neri e mulatti), per territorio (zone rurali e oriente del paese), per situazione lavorativa (impiegati pubblici e pensionati).

Prospettive

A breve termine, la situazione più probabile è che il processo di decentralizzazione e destatalizzazione parziale avanzi senza fretta ma incessantemente, e che quindi il ritmo rimarrà lento. Ma, come nota Hernández, tenendo conto dei “disastri dell’Europa orientale” questo rappresenta tutt’altro che un problema. In ogni caso, precisa Triana, non bisogna dimenticare che la “quotidianità s’impone”. “Il tempo della gente è ritmato dalla vita di tutti i giorni, e occorre risolvere i problemi della quotidianità. Per questo non possiamo darci scadenze di 50 anni: se il modello non le risulta utile, la popolazione si allontana dal processo”. Cuba affronta una trasformazione del modello economico inedita dall’inizio della Rivoluzione nel ’59, in cui anche il ritmo del processo diventa un’arma a doppio taglio, un artefatto estremamente difficile da maneggiare.

 

*Dottore in Studi Latinoamericani e Professore dell’Università del País Vasco

(Traduzione di Davide Angelilli)

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