L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. Balzac scrive Le Père Goriot nel 1835. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, fino alla Belle Epoque, questo suggerimento resta valido. Ai tempi di Proust, a Parigi viveva un ventesimo della popolazione francese, ma la capitale concentrava un quarto dei patrimoni del paese. La «prima mondializzazione» (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX. È la tesi di un poderoso volume dal titolo ambizioso, Le capital au XXIe siècle, che l’economista Thomas Piketty pubblica da Seuil (pp. 969, euro 25). «All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot» afferma Piketty. La spiegazione economica di questa minaccia è la seguente: «poiché il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche».

Il passato che torna

Piketty, basandosi su una considerevole massa di dati statistici (soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Usa, ma anche dei paesi emergenti grazie al World Top Incomes Database), analizza la questione della ripartizione delle ricchezze e, quindi, dell’ineguaglianza. Tra Marx che aveva analizzato l’accumulazione e la concentrazione del capitale, e Kuznets, che ottimisticamente credeva nelle forze equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico, che avrebbe dovuto portare spontaneamente alla riduzione delle ineguaglianze.

Gli spari dei poliziotti contro i minatori, a Marikana vicino a Johannesburg il 16 agosto 2012, che hanno fatto 34 morti tra i lavoratori che chiedevano un aumento di stipendio che la compagnia mineraria con sede a Londra non voleva concedere per poter versare maggiori dividendi agli azionisti, ci ricorda l’attualità dello scontro tra lavoro e capitale. A Heymarket Square, a Chicago, il 1° maggio 1886 c’erano state violenze analoghe. «Lo scontro tra capitale e lavoro appartiene al passato oppure sarà una delle chiavi del XXI secolo?» si chiede Piketty.

La questione della ripartizione delle ricchezze è già al centro dell’economia politica classica. Malthus, a fine Settecento, vede la minaccia nella sovrappopolazione. Ricardo si inquieta del prezzo della terra, bene raro, e della rendita fondiaria. Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizza la dinamica del capitalismo in pieno sviluppo. I dati statistici dicono che «una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione permanente». Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma «dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società». L’happy end prevista dalla curva a U di Simon Kuznets a metà del secolo scorso – le ineguaglianze di reddito destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico – non ha luogo all’inizio del XXI secolo.

Certo, c’è stata una forte riduzione delle ineguaglianze di reddito tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda: negli Usa, il 10% degli americani più ricchi concentrava ogni anno il 45-50% del reddito nazionale negli anni Dieci. Alla fine degli anni Quaranta, questa percentuale è caduta al 30-35% (oltre alle guerre e all’inflazione, un ruolo l’ha avuto anche l’imposta progressiva sul reddito, introdotta nel 1913 negli Usa, nel 1909 in Gran Bretagna, nel 1914 in Francia, nel 1922 in India, nel 1932 in Argentina). Ma dagli anni Settanta-Ottanta, la tendenza si è invertita. Dal secondo dopoguerra c’è stato il tempo per ricostruire i patrimoni e la svolta di Reagan, con l’abbassamento delle tasse, ha fatto il resto.

Le ineguaglianze crescono: negli Usa, dimostra Piketty, «la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920». Tra il 2000 e il 2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910. Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo. Piketty si chiede: «il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme di questi attori?».

Una tendenza da invertire

Per evitare questa deriva , Piketty invoca scelte politiche, poiché «non esiste nessun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che le tendenze destabilizzatrici e che portano all’ineguaglianza con l’abbiano vinta durevolmente». La principale fonte di convergenza dei redditi è la diffusione delle conoscenze e l’investimento nella scuola per tutti, sia all’interno di ogni paese che tra paesi. A questo Piketty suggerisce di aggiungere un’imposta mondiale progressiva sui redditi da capitale, perché l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta. Ma la vicenda della tassa sulle transazioni finanziarie, che avrebbe dovuto essere introdotta in nove paesi della Ue, ma che progressivamente è svuotata di ogni contenuto e di fatto abbandonata, ci dice che la battaglia sarà lunga e difficile, senza nessuna certezza di vincerla.