Il presidente statunitense Trump si è ritirato dall’accordo nucleare del 2015 con l’Iran e ha imposto due nuovi round di sanzioni a maggio e novembre 2018. Lì per lì i vertici di Teheran hanno preso tempo, augurandosi che Bruxelles fosse in grado di salvare l’intesa.

Sotto embargo, le esportazioni di petrolio iraniano sono però scese da 2,4 milioni di barili al giorno a 500mila barili. È diventato impossibile importare un certo numero di prodotti, tra cui alcuni medicinali salvavita. L’economia della Repubblica islamica si è piegata, senza spezzarsi.

Gli iraniani sono resilienti, ma la loro pazienza ha un limite: sarà pure colpa di Trump, ma anche la leadership di Teheran ci mette del suo. A quarant’anni dalla rivoluzione, i nodi vengono al pettine. A distanza di un anno dal secondo round di sanzioni voluto dall’amministrazione repubblicana, la leadership di Teheran cerca di fare pressione sull’Europa affinché non si ritiri dall’accordo, non rinunci al business e trovi il modo per far vendere all’Iran il suo petrolio.

Francia, Germania e Regno unito hanno provato a mettere in piedi il veicolo speciale Instex, che avrebbe dovuto funzionare come una camera di compensazione per acquisti e vendite da e con l’Iran, ma ha fatto cilecca. La leadership iraniana ha deciso di usare la vecchia tattica della carota e del bastone.

Cominciamo dalla carota. Il presidente moderato Rohani ha reso noto la scoperta di un nuovo giacimento petrolifero da 53 miliardi di barili. L’Iran è al quarto posto per riserve accertate di oro nero (150 miliardi di barili) e al secondo per riserve accertate di gas naturale, i nuovi pozzi farebbero aumentare di un terzo le riserve di greggio.

Il campo scoperto si trova nella provincia meridionale del Khuzestan, sul Golfo persico, dove c’è anche il giacimento di Ahvaz che vale 65 miliardi di barili. A 80 metri sottoterra, facile da estrarre e da esportare via mare: se non fosse per l’embargo, gli europei cercherebbero di investirvi.

Il giacimento è in una regione, il Khuzestan, situata al confine meridionale con l’Iraq e colpita duramente dalla guerra scatenata dal dittatore iracheno Saddam Hussein nel 1980. Una regione ricca di petrolio i cui proventi sono gestiti da Teheran: nei decenni è cresciuto il risentimento e non sono mancati gli attentati di movimenti separatisti sobillati dalle monarchie sunnite della sponda sud del Golfo.

In realtà, i vertici di Teheran erano già al corrente di questi giacimenti: nel 2001, durante la presidenza del riformatore Khatami, Hossein Kazempour Ardebili, incaricato degli Affari internazionali al ministero del Petrolio, mi aveva mostrato sulla cartina geografica sulla parete del suo ufficio alcune aree dove erano state effettuate prospezioni ma ancora non veniva sfruttato il petrolio perché «quelli sono i pozzi che si potranno aggiudicare le compagnie petrolifere statunitensi, nel momento in cui ci sarà in riavvicinamento».

La fonte era affidabile, anche perché Kazempour Ardebili aveva servito nell’Opec e ne è tuttora il rappresentante per il suo paese. Quell’asso nella manica non era mai stato tirato fuori, perché Washington non ha mai allentato la pressione sull’Iran. Se ora il presidente Rohani lo esibisce, è perché si tratta di una decisione condivisa, nell’oligarchia della Repubblica islamica, da ayatollah e pasdaran.

Oltre alla carota, la leadership di Teheran usa anche il bastone e sventola lo spauracchio del nucleare: mercoledì scorso i tecnici iraniani hanno iniziato a iniettare uranio in 1.044 centrifughe nell’impianto di Fordow, 90 metri sottoterra per evitare di essere bombardato, dando il via alla quarta fase di allontanamento dall’accordo.

In questa situazione di tensione, i pasdaran hanno mano libera e fanno libero uso del sistema di difesa antiaerea con i missili Mersad, abbattendo i droni stranieri che si infiltrano nel paese. Perché, al di là del nucleare, i pasdaran hanno a disposizione i missili: servono a difendere la nazione e non saranno oggetto di contrattazione come esige Trump.