L’azione terroristica di ieri che a Trèbe in Francia ha provocato tre vittime, e che per un attimo sembrava aver rubato la scena all’insediamento del parlamento italiano dopo il voto-terremoto del 4 marzo, conferma che la nuova scia di sangue che viene dagli attentati di Parigi, Bruxelles, Lione, Nizza, Berlino, sembra inarrestabile.

Anche con il rivendicato collegamento al massacro del Bataclan del novembre 2015, vista la richiesta dell’attentatore di liberare Abdeslam, uno dei responsabili. L’agguato di ieri, rivendicato dall’Isis, è sembrato inaspettato, come fosse giustapposto ad un clima, francese ed europeo, normalizzato su altre priorità, forme politiche e sorti. Ma non è così. Perché la guerra in Siria – e in tutto il Medio Oriente – non è finita.

Con i suoi lutti e massacri, i suoi fronti per procura (Arabia saudita e Israele contro Iran, Usa contro Russia ecc. ecc.), e i milioni di profughi in fuga disperata.

E per questo conflitto, aperto come una voragine, il terrorismo jihadista insiste a riproporsi come risposta asimettrica in tutto il mondo; mostrando un nuovo e perfino più insidioso impegno e coinvolgimento.

Mentre in queste ore le milizie dell’Isis sono le truppe di terra che indicano i bersagli da colpire e che fanno da battistrada ai raid aerei e ai carri armati della Turchia di Erdogan, il baluardo della Nato. Che ha schiacciato la resistenza curda ad Afrin, e che ora punta a cancellare i cantoni autorganizzati del Rojava curdo-siriano.

L’Isis, coperto dalla maschera del cosiddetto Esercito di liberazione siriano – tanto sponsorizzato da Stati uniti, Europa e media nostrani – in queste ore questo ruolo criminale sta recitando. Così, quasi a rivendicare il riciclaggio e il nuovo ingaggio in corso, ecco che riesplode l’attacco in Europa; ecco che la guerra ci ritorna in casa.

A pochi giorni da un fatto significativo: le forze curde di sinistra dell’Ypg hanno chiesto a più riprese alle capitali europee di «riprendersi» i foreign fighters catturati a centinaia nelle battaglie in Siria.

Sono combattenti arrivati (in tanti dalla Francia) a combattere in terra siriana con il silenzio assenso dei Servizi segreti occidentali, perché lì andavano a combattere contro il nemico comune rappresentato da Assad. Perché lì la coalizione degli Amici della Siria (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Stati uniti più la Turchia e le petromonarchie del Golfo, in primis l’Arabia saudita) hanno attivato dal 2013 una destabilizzazione che doveva avere «successo» come già in Libia nel 2011.

Ora l’Isis è in rotta come «Stato», ha perso le sue capitali, Mosul in Iraq e Raqqa in terra siriana.

Ma, mentre Trump schiera i Saud a guida del fronte sunnita contro gli sciiti riempiendo Riyadh di miliardi di armi, ecco che la sigla Isis torna spendibile, rivendicabile su altri fronti.

Contro i curdi – abbandonati dagli Usa – e probabilmente con i foreign fighters, in Europa e nel mondo.

Certo una supposizione.

Ma appare assai singolare il fatto che l’attentarore di Trèbes, già finito in carcere, risultasse ipersegnalato dai Servizi segreti francesi. E che tutto accada in queste ore, in una Francia che torna ad essere attraversata da proteste sociali e mentre esplode come una bomba l’affaire libico che coinvolge le malefatte dell’ex presidente Sarkozy. A pensar male…