Preservare la tradizione senza mummificarla è una delle grandi scommesse creative, non solo del nostro tempo. Il corpo vivo di un patrimonio folklorico è una linea dinamica e le culture musicali, anche oggi, ci offrono la città e la campagna come materia e come memoria, laddove la memoria è soprattutto un processo (come la tradizione), una perenne ricerca di senso nel rapporto con il passato e non un semplice accumulo di dati in via di progressivo disfacimento. D’altra parte nella cultura rurale si identifica il gesto con il luogo, come la contadina che gira per ore nella pentola sul fuoco, come la danzatrice che balla per ore i brani folk della propria terra. Morale: se il gesto si identifica con il luogo, tu non farai nulla per rovinare il luogo.

Sembrerebbe scaturire da alcune di queste riflessioni, o da riflessioni limitrofe, il focus tematico del Førde Festivalen di quest’anno dedicato a «Musica + Natura». Innanzitutto il contesto: una cittadina incastonata in cima a un fiordo nella costa ovest norvegese, un centinaio di chilometri a nord di Bergen. Tutto intorno ghiaccio che diventa cascata, fiume che diventa mare, terre che si impregnano d’acqua tutto l’anno, luce che in estate non abbandona mai il giorno e relega alla notte un ruolo da gregario assoluto. Da queste parti il rispetto per la natura e la preservazione del patrimonio tradizionale (anche quello musicale) sono priorità assolute e condivise. Insomma un «ambiente» che dinamiche come quelle legate alla cultura ecosolidale e alla preservazione della matrice tradizionale finisce per metterle in gioco senza artifizi. Così il festival, da un quarto di secolo a questa parte, diventa più una nobile occasione per stilare bilanci e far sfilare talenti che tutto l’anno comunque miscelano i propri progetti all’humus dei luoghi e la kermesse evita per questo di rappresentare un episodico exploit organizzativo.
Førde e il suo festival convocano centinaia di musicisti; una buona parte di essi sono norvegesi o comunque scandinavi, ma i rimanenti arrivano davvero da ogni parte del globo. Anche gli stage nei quali vengono fissate le esibizioni ripropongono la dicotomia tra il contesto urbano e quello rurale: decine di concerti si celebrano nell’attrezzata multisala del furdhuset, nella Casa della Cultura e in un club molto cool, il Pikanto; altre decine vengono abilmente ripartiti in fattorie, picchi sui fiordi, parchi, baite…A quel punto ai musicisti non resta altro che suonare al meglio e declinare i propri diversi patrimoni folklorici, alcuni più contaminati, altri sostanzialmente conservativi. . In occasione del festival l’ensemble era coadiuvato da un folto manipolo di giovanissimi allievi di scuole di musica provenienti da tutta la Norvegia. Tutti violinisti, in erba, ma molto molto ferrati.[do action=”citazione”]Tra le voci più interessanti del primo drappello di proposte va inserita senz’altro quella dei Majorstuen. Si tratta di un quintetto composto da giovani musicisti che si dividono tra hardingfele (il cordofono tradizionale norvegese), violini, violoncello e contrabbasso[/do]

I Majorstuen e il loro plotoncino di archi hanno così messo in scena un delizioso spettacolo dedicato al mondo dei volatili con immagini sullo sfondo dedicate al consesso ornitologico e una serie di coreografie che gli stessi musicisti interpretavano sul palco mentre suonavano. La musica era chiaramente ispirata al repertorio per archi del folk norvegese, ma aveva anche un tocco di gioiosa devianza con riferimenti al minimalismo e al jazz. Deviante, ma meno gioiosa è risultata senz’altro anche la cifra del progetto di Unni Løvlid. Si chiama Lux ed è una riproposizione ieratica, intensa e densa di alcune canzoni tradizionali scandinave. La Løvlid alla voce si faceva accompagnare da un contrabbassista, Hakon Thelin, che ha esplorato tutte le possibilità timbriche dello strumento, anche le più anticonvenzionali, e da Amund Sjølie Sveen, un suonatore di bicchieri accordati con diverse quantità di acqua.

Sempre sul versante delle alchimie ben riuscite vanno segnalati anche i portoghesi Oquestrada, un combo teatrale e affiatatissimo che mette insieme la voce ammiccante di Marta Miranda con chitarra portoguesa, tromba, chitarra acustica, fisarmonica e basso tinozza e la doppia proposta maliana di Afel Bocoum e delle Tartit, ensemble tuareg a prevalenza femminile. Un incontro emblematico e significativo quest’ultimo, celebrato alla fine del set delle Tartit che hanno chiamato Bocoum sul palco per un paio di brani conclusivi e hanno approfittato dell’occasione per invocare insieme un Mali pacificato. Parole importanti, se si pensa che sono state pronunciate da voci come quelle delle Tartit che vivono e si dividono tutt’oggi tra i campi profughi di Mauritania e Burkina Faso a causa delle turbolenze politiche, militari e religiose in tutta l’area sahariana. Tra le proposte di musica più legate al portato tipicamente tradizionale la nostra Anna Cinzia Villani con la sua pizzica indiavolata, i quebecquois Le Vent du Nord, il duo scandinavo Rydvall/Mjelva, i finlandesi Suo, gli ungheresi Songorno, i pupilli di casa Kari Malmanger e Ottar Kasa specialista di hardingfele (che suona e autocostruisce) e le meravigliose voci del georgiano Rustavi Ensemble e della turca Aysenur Kolivar.

C’erano anche i Krar dall’Etiopia nell’infuocato e festoso party conclusivo. La loro è una proposta che smentisce alcune delle riflessioni fatte in precedenza. Nel senso che il loro manovrìo sul Krar (la lira etiopica) mantiene le caratteristiche della musica tradizionale. Solo che le krar amplificate e distorte appositamente per il set live nei club di Addis Abbeba, finiscono per risultare vettori strumentali ultramoderni, acidi e feroci. Come dire: datemi un po’ di corrente elettrica e incendierò il mondo.