«Sole, grande astro orientale, hai gli occhi lacrimati, / il mondo intero si è oscurato, la vita ha le vertigini…»: così si conclude, con il pianto del sole sulla morte di Ulisse, l’epilogo dell’Odissea di Nikos Kazantzakis, il poema greco moderno che Nicola Crocetti ha resuscitato in lingua italiana, dopo anni di sofferto cesello linguistico. È raro che si incontri la ventura di assistere da vicino alla crescita e alla pubblicazione di un libro epocale, e di salutarne l’uscita. Nella sua unicità, questa traduzione dell’Odissea di Kazantzakis (Crocetti editore, pp. XXXIV-798, e 35,00), ha senz’altro tutti i carismi di un’opera epocale, al di sopra di ogni esteriore celebrazione retorica.
Per questo epos la qualifica di monumentale, per tradizione di studi conferita a suo tempo, da Geoffrey S. Kirk, ai due poemi di Omero, è tutt’altro che peregrina, per molte ragioni, al di là delle proporzioni dei ventiquattro canti di cui la sua tessitura neo-rapsodica si compone. Giunto a superare i quarantamila versi nella penultima delle sue sette stesure, che ne scandiscono la genesi, durata tredici anni, dal 1925 al 1938, nella sua redazione finale il nuovo canto di Ulisse, si sprigiona dalla memoria omerica sulle orme di Dante, di Tennyson, di Nietzsche e dell’elan vital di Bergson, per 33.333 stichi decaeptasillabi, numero esoterico voluto dall’autore – e forse un po’ approssimato per eccesso, come l’altrettanto ‘monumentale’ traduttore, Nicola Crocetti, confida. La sua trama fa da sequel all’antica Odissea solo in senso molto generico: sarebbe più giusto affermare che ne è la rinascita speculare: non un’epica del ritorno, ma del viaggio senza ritorno.
Già in antico il poema di Ulisse fu integrato nel ciclo poetico, fino alla morte dell’eroe per mano di un suo stesso figlio, Telegono, nato da Circe, la dea maga, che in alcune versioni del mito lo resuscita per magia. Kazantzakis, che pure tenne conto di queste arcaiche tradizioni, seguì un altro cammino: nella sua narrazione il rapporto Penelope-Ulisse recede sullo sfondo; Ulisse, adempiuto il suo compito primordiale, avviato Telemaco a un felice matrimonio con Nausicaa, parte per la sua avventura finale. Recluta cinque personaggi, del tutto remoti dagli antichi poemi: Capitan Conchiglia, anziano lupo di mare; Centauro, grassone di buon cuore; il Bronzista, maniscalco del palazzo; Orfeo, folle suonatore di flauto; Granito, un giovane fratricida, ciascuno rappresentativo di una parte della società greca del tempo. Con loro l’eroe si ricostruisce la nave e parte senza saluti né addii. Nel suo nuovo percorso gli toccherà assistere a eventi storici come l’invasione dei Dori, che rinnoverà la società eroica decaduta, gli accadrà di scoprire e rinnegare nuovi dèi, di costruire la sua città ideale solo per vederla distrutta nelle fiamme vulcaniche, di incontrare in Margarò, la prostituta, una sorta di anti-Penelope, di imbattersi in personaggi che prefigurano Cristo, Buddha, don Chisciotte, e in un Fiero Cantore che altri non è se non l’alter ego dell’autore. Ulisse infine si avvierà sulla rotta della morte, accompagnato dalle ombre di quelli che ebbe vicino.
Naturale risposta alle molteplici questioni di poetica che un’opera così complessa poneva, furono sia la misura metrica sia la lingua che Kazantzakis elesse. Non poteva più bastargli la cadenza canonica della poesia greca moderna, il medievale e bizantino verso politico (cioè popolare, non classico), di quindici sillabe, il metro del Dighenis Akritas e dei canti dei kleftes, briganti ed eroi resistenti al dominio dei Turchi. Per eguagliare nel respiro ritmico, se non nell’andamento, l’esametro, egli dilatò la misura di quel verso a diciassette sillabe, di passo sempre giambico, serrato, martellante, ma al contempo flessibile, scandito per otto battute. Questo stesso ritmo sarà impiegato dal poeta anche nella versione neo-greca della parola originaria di Omero, inseguita in una sorta di percorso di senso contrario, vòlto alle fonti dell’ispirazione primaria.
La scelta linguistica di rottura, in favore della dimotikì, la lingua del popolo, contro l’artificiale, e artificiosa, «gramatica» della katharèvousa, costruzione puristica dell’ufficialità paludata del potere, è l’altro connotato rivoluzionario dell’opera. Ulteriore elemento innovativo fu l’abbandono dell’ortografia etimologica del greco tritonale, sostituita con il grafema unico del tónos acuto: una sorta di individuale e precorritrice riforma ortografica dell’accento. Come contraltare, Kazantzakis compì sulla lingua demotica un estremo scavo e sondaggio stilistico, allo scopo di espanderne le risorse, così da creare un idioletto epico di nuova fattura. Come denuncia, nell’originale, lo stesso titolo del poema, Odyseía e non Odysseía, con un sigma di meno, per non canonica opzione dialettale, l’opera non voleva entrare in competizione con Omero, così come la nuova lingua epica non voleva essere emula della lingua d’arte degli aedi, ma configurarsi piuttosto come suo equivalente funzionale moderno.
Conforme alle intenzioni del suo autore, l’Odyseía, l’epopea più vasta d’occidente, fu «un inno alla … fragile grandezza dell’uomo», come l’accademico di Francia Alain Decaux ha sintetizzato con felice formula critica, e in pratica ha avuto sulla lingua neo-greca un effetto paragonabile a quello di una nuova Divina Commedia. Con impareggiato «fervore linguistico» (per citare la fine introduzione che Crocetti ha premesso al testo tradotto), Kazantzakis ha esplorato il lessico dei dialetti, dei villaggi, delle frasi fatte, dei proverbi, per tendere fra il cielo e l’abisso l’arco della sua innovativa lingua poetica. Bersagliato dalle voci pigre di compatrioti non sempre benevoli, si vide mosso il rimprovero di aver scritto in moderno dialetto cretese: in realtà pochissime decine di parole cretesi si annoverano sia nel poema, sia nelle traduzioni di Omero e di Dante. Il vero tesoro della lingua di Kazantzakis, glossaplastis, forgiatore di linguaggi, miglior fabbro del parlar sempiterno, sono piuttosto gli infiniti lemmi athisàvrista, cioè non registrati in alcun dizionario, non tesaurizzati nei lessici, dannazione di tutti i grandi traduttori europei che si sono avvicinati a questo impervio capolavoro, silva portentosa della creazione verbale. Si tratta spesso di aggettivi composti, come fengarolampyroúsa («che risplende come la luna») o anthodrosomiloúsa («che parla come un fiore coperto di rugiada»), capaci da soli, in traduzione, di esaurire lo spazio di un verso. Immenso è il patrimonio a cui il poeta attinge, per dar vita a queste meraviglie della lingua, e va dal grande bagaglio dei poeti antichi e moderni alle canzoni popolari.
È più che evidente, dunque, che far rivivere degnamente in altra lingua un simile tour de force dell’espressione poetica è un’impresa a dir poco titanica, la fatica erculea di una vita: tale è l’impegno che vi ha profuso lo statunitense Kimon Friar, per incoraggiamento del quale la traduzione italiana ha preso l’avvio; tale è stato il percorso del neogrecista svedese Gottfried Grünewald, che ha atteso all’immane lavoro fino alla morte, avvenuta nel 2017 (a 104 anni); tale è infine l’investimento esistenziale che vi ha profuso Nicola Crocetti. L’Odissea di Kazantzakis rappresenta il culmine della sua lunghissima carriera di traduttore, editore e curatore di poeti e scrittori neo-greci: un dono unico e prezioso, inestimabile lascito culturale. Nel suo progressivo definirsi sul piano stilistico della lingua d’arrivo, ma anche nel contesto di uno spazio letterario talora inquinato da plagi d’improvvisati abbreviatori e minato dall’incognita dell’ascolto, la storia della trasposizione in italiano di questa neo-greca Odissea costituirebbe di per sé un’epopea filologica sorprendente, che in un saggio sui vertici della traduzione letteraria contemporanea occuperebbe un intero capitolo.
Per usare le parole dello stesso Crocetti, come Kazantzakis, per creare la sua lingua prodigiosa, esplorò dialetti e linguaggi di tutta la Grecia nei loro meandri reconditi, così il traduttore di Kazantzakis deve aggirarsi in tutti i recessi più nascosti del villaggio globale per rinvenire strumenti abbastanza validi da restituirne la forza. Manca un’edizione neogreca annotata del poema, mancano lessici speciali greci dedicati, benché ci sia stato chi si è preso l’inutile pena di elencare le neoformazioni dell’Odissea senza fornirne l’esegesi, in virtù di quella sorda abitudine di «illustre somiero che rampa con il suo carico di nera scienza catalogale», che caratterizza taluni filologi, secondo un’arguzia di Dino Campana che Crocetti giustamente richiama. Per dare un’altra idea della difficoltà del traduttore, basti solo pensare alla pletora di epiteti formulari di cui Kazantzakis corona il suo eroe di natura molteplice: «Omero usa una ventina di epiteti per definire Ulisse» scrive Crocetti. «Quelli utilizzati da Kazantzakis sono più di cento, e non tutti encomiabili. I più scontati sono gli stessi di Omero, come l’Arciere, l’Astuto, il Multiforme, il Tessitore d’inganni, il Distruggirocche ecc., ma il Cretese ne inventa moltissimi altri. Eccone un campionario: Omicida, Mente di avvoltoio, Mente demoniaca, Spietato, Iracondo, Inaddolcibile, Subdolo, Maestro d’inganni, Deicida, Canzonadèi, Avversario di Dio, Caparbio, Legno storto, Distruggicuori, Distruggimondi, Conoscicuori, Ammaliacuori, Ingannacuori, Intrigante, Seduttore, Voluttuoso, Festaiolo, Sortilego, Briccone, Ingrato, Solitario, Rapitore di anime, Sfasciacervelli, Millevolti, Schernitore del cielo, Sventurato, Nemico della Morte, Insonne, Audace, Volitivo, Immaginifico, Esule lontano, Gran sapiente, Giudizioso, Fantasioso, Mente eccelsa, Mente feconda, Mente di fiamma, Mente alata, Anima paziente, Signore dei picchi, Foggiamondi, Millevolti, Milleaffanni, Milleanime, Danzatore di luce, Inavvicinabile, Guardaconfini, Uomo dai molti fratelli, Setteanime, Uomo dalle due anime, Uomo dai mille tormenti, Assediato dalle ombre, Guerriero notturno, Petto di mare, Fiato ferino, Atleta, Condottiero, Maestro, Corifeo, Asceta…».
Questo novero polimorfo di invenzioni, accentrate sul solo personaggio di Ulisse, in un poema in cui l’intreccio di trame, maschere, paesaggi, metafore, simboli, situazioni è sconfinato, ariostesco, versipelle, ben al di là delle tradizioni odissiache degli antichi e dei moderni, dà anche un’idea di come Crocetti abbia affrontato e risolto il dilemma linguistico: neoconii solo dove possibile, soprattutto callidae iuncturae, scaltri accoppiamenti giudiziosi di parole di una lingua multiforme. A scandire le cadenze del racconto, la trama ritmica di un verso lungo italiano, di andamento giambo-trocaico, equivalente dell’eptadecasillabo originale, e capace di restituire in un sol colpo i due connotati ossimorici dell’autore: concentrata solennità e limpida leggerezza. Con questa tessitura di linguaggi e di forme Crocetti è riuscito a donare allo spazio letterario italiano l’irrinunciabile opera-mondo di un altro tempo e di un altro popolo, con il suo inesausto caleidoscopio di fantasmi, di miti, di immagini, traducendo, più che una trama poetica, un tessuto antropologico rivissuto nella sua più concreta pienezza: tormentato trionfo di artigianato della parola che pochi traduttori possono celebrare.