Stanley Crawford (Colin Firth), nascosto dietro a un chimono fiorato e a un paio di lunghi baffi finti, sega in due ragazze seminude e fa scomparire elefanti per la delizia delle platee londinesi anni venti. Nome d’arte Wei Lin Soo. Come Houdini, l’illusionista dell’ultimo film di Woody Allen, Magic in the Moonlight, ha una carriera parallela, che consiste nello smascherare una lunga serie di millantatori di facoltà paranormali. Caustico, tagliente di lingua e in procinto di sposarsi con una donna pratica a realistica come lui, Crawford crede solo nell’ordine in un mondo essenzialmente disordinato, nella finalità della morte, e nei peggiori istinti dei suoi simili. Quando un collega chiede il suo intervento professionale sulla riviera francese, dove Sophie, una giovane veggente di provincia (Emma Stone), ha sedotto il rampollo di una ricca famiglia americana (Hamish Linklater), Crawford accetta la sfida. Pospone una vacanza «intelligente» con la fidanzata, che essendo di buon senso non si scompone granché, e si dirige sulla Costa mediterranea, illuminata da Darius Kondhji con la luce rosa e magica di certi quadri impressionisti.

Uno dei film più belli da guardare che Woody Allen ha girato da anni a questa parte, Magic in the Moonlight è una coppia di champagne che segue la vodka ghiacciata di Blue Jasmine, una commedia romantica ambientata in una colonia di expat che ricorda quella di Tenera è la notte dell’adorato Fitzgerald, e che rimanda a grandissimi classici hollywoodiani come My Fair Lady di George Cukor e Un amore splendido di Leo McCarey.
Prestigiatori, chiromanti, ipnotisti, sedute spiritiche, taxi magici, macchine del tempo…e una certe permeabilità tra il mondo reale e quello dell’illusione punteggiano qua e là la filmografia di Allen –dal morphing di cinema a realtà di La rosa purpurea del Cairo, ai più recenti viaggi nel tempo di Midnight in Paris, alla sua deliziosa reinterpretazione di Giulietta degli spiriti, Alice, al mistery comico La maledizione dello scorpione di giada.

Il caos, l’irrazionalità, e quindi la magia, vincono quasi sempre sulla visione razionale e pessimo/deterministica incarnata nei film da personaggi interpretati, se non dallo stesso Woody Allen, da un suo alias. Si tratta di una conversazione/battaglia interiore che il regista newyorkese conduce da sempre, e a cui Magic in the Moonlight è interamente dedicato. Colin Firth porta al ruolo «di Woody» un’irreprensibilità che fa molto Fitzwilliam Darcy, mentre Stone, avvolta in impalpabili mise da flapper e chaperoned da una mamma arrivista (Marcia Gay Harden), è un mix tra una ninfa disneyana e un’avventuriera americana modellata sulle eroine tragiche di Edith Wharton e Henry James.
«Non è male. Anche se fosse una truffatrice» dice a Stanley la magnifica zia Vanessa (l’attrice inglese Eileen Atkins) un diretto omaggio all’altrettanto magnifica nonna Janou (Cathleen Nesbit) che Cary Grant e Deborah Kerr andavano a trovare in una villa a picco sulla Costa azzurra in Un amore splendido.

Ville eleganti, sontuosi giardini e un Mediterraneo che più cristallino di così non si può, fanno da cornice alla battaglia filosofica tra Stanley e Sophie, combattuta secondo i tempi comici impeccabili di una commedia anni trenta. Capelli rossi, occhi blu impenetrabili e le mani che fluttuano nell’aria come per dar corpo a immagini che vede solo lei, Sophie è un’avversaria pericolosissima per il finto mago cinese. L’innamoramento tra i due che prevedibilmente deriva dallo scontro non è piaciuto a molti critici americani, infastiditi dall’ennesima love story tra un uomo di mezza età a una ragazza molto più giovane di lui. Ma Pigmalione è una figura ricorrente nella filmografia alleniana (e poi, non succede così anche nella realtà?)

A quella filmografia, Magic in the Moonlight non porta nulla di straordinariamente nuovo (ma c’è un’epifania religiosa a sorpresa), e certo non è un oggetto incisivo, attuale e ispirato come Blue Jasmine. Ma è pieno bellezza, di gioia del racconto e di cose che stanno a cuore al suo regista. Un incantesimo personalissimo.