Uno degli album più attesi del 2021, è stato scritto. E Iosonouncane, dopo sei anni, non si è risparmiato con quasi due ore di un disco kolossal, 17 sono le tracce di Ira, pubblicato con la rinata etichetta Numero 1. «Straniante» è l’aggettivo che suscita l’opera dell’artista sardo: la terra in cui ci guida è sconosciuta, inaspettata, siamo al sicuro e ci spaventiamo, ammiriamo l’orizzonte e scappiamo. Il terzo album, in continuità con Die, va però in senso contrario alla musica apparentemente funzionale, è un concept album denso, scritto in «una lingua dell’errore, della distanza percorsa e ancora da percorrere, una lingua del fraintendimento, della mancata comunicazione».

I TITOLI sono in spagnolo, francese, inglese, tedesco, arabo, così come i testi sono intrisi di una amalgama di lingue, al principio potrebbe far pensare a un personalissimo esperanto, almeno nell’idea politica di superamento dei confini: «L’esperanto è una lingua artificiale con delle regole, il mio lavoro va volutamente nella direzione opposta, ho utilizzato lingue che non conosco con la volontà di creare un linguaggio estemporaneo, contingente e frutto dalla necessità. Scrivo le melodie improvvisando, come fosse un assolo di voce e non all’interno di una griglia che canonicamente chiamiamo forma canzone. Ero alla ricerca di suoni altri rispetto agli abituali, in Ira diverse melodie avevano un rapporto di parentela che suggerivano una sensazione di distanza, di solitudine, di lontananza. Ho sviluppato l’idea della narrazione di una moltitudine di uomini e donne in viaggio e della loro incapacità di esprimersi. Ho lavorato sulle lingue per ottenere dal punto di vista lessicale, timbrico, fonetico questa sensazione specifica».

CI SI RITROVA non in una storia ma in una narrazione che attraversa una drammaturgia simbolica, in cui l’ingrediente principale è l’evocazione, dove ognuno può scovare il proprio filo conduttore in base a ciò che la musica gli muove dentro: «Le parole nel disco sono frutto di un processo lunghissimo di sintesi di un’enorme quantità di pagine scritte, anche in prosa, che poi diventano una specifica immagine. Il mio modo di scrivere non punta a dei personaggi o a una contestualizzazione storica o geografica, ogni elemento del disco deve concorrere alla definizione di questa narrazione. Lavoro su degli archetipi, ciò mi permette di tratteggiare uno scenario in cui la stratificazione di senso sia interna ed esterna all’opera, quindi con più chiavi di lettura. C’è chi mi ha citato l’Esodo, Furore di Steimbeck o una presa di distanza dall’ipercomunicatività. Sono tutte giuste; per avere delle immagini sintetiche devo passare da una stesura personale e intima della drammaturgia».
Se Ballard era il nome tutelare del primo disco, Pavese di Die, in Ira c’è The waste land di Eliot e Finnegans wake di Joyce: «Il disco è lungo perché altrimenti l’operazione sulla lingua e sui suoni avrebbe rischiato di risultare artificiosa se ridotta a una manciata di brani, un po’ perché cercavo un’esperienza di attraversata e di ascesa. Mi trovo spesso a parlare di Ascension di Coltrane, un disco che ti impone la volontà di affrontarlo, quando arrivi alla fine sei stremato ma diverso».

SE IL LINGUAGGIO è destrutturato e ricomposto, la voce sembra fondersi completamente sulle musiche (non in pezzi come Soldiers), poco a che vedere con il cantautorato: «Con questo disco forse ho dissipato ogni dubbio sul fatto che io sia un cantautore. Ho ascoltato i cantautori ma anche tanto pop, nella sua forma più alta, come terreno di sperimentazione, però non ho avuto particolare interesse per la canzone tradizionalmente intesa, strofa-ponte-ritornello, otto misure centrali, ritornello-coda. Per me l’elettronica è come il piano o i fiati, sono timbri, sono strumenti. Ciò che faccio non lo invento di certo io, sulla scena internazionale ci sono tanti rappresentanti, in Italia però c’è un ambiente ristretto, difficilmente permeabile, con un’economia che giustifica prodotti che a livello artistico sarebbero ingiustificabili». Si chiude con Cri che ha la dolcezza dell’estasi, dell’armonia ritrovata. Quando gli domandiamo se per ipotesi Ira fosse stato il suo primo album, avrebbe trovato un editore: «È una domanda interessante, probabilmente no».