Usciva nel 1956 un libro capitale, sull’arco lungo della Modernità, per la riflessione attorno a uno dei temi canonici per l’arte europea, e cioè The Nude: a study in ideal form. Si tratta del volume scritto da sir Kenneth Clark ricomponendo i materiali predisposti per una serie di Andrew W. Mellon Lectures tenute nel ’53 alla National Gallery of Art di Washington; conferenze pronunciate in sei affollatissimi appuntamenti che avrebbero spaziato dall’Antichità al Novecento nell’esplorare «l’uso del corpo umano come simbolo di vari stati emotivi, incarnazioni e simili, Apollo, Venere, Ercole…» (secondo quanto anticipato dall’autore a Edith Sitwell, coll’intento di presentarle il programma del proprio impegno). Il testo (tradotto tempestivamente in Italia dall’editore Aldo Martello) fu accolto nell’immediato da un coro unanime di consensi, mescolatisi poi nel corso degli anni a polemiche sempre più aspre. Il canone proposto da Clark venne infatti accusato di elitismo, passatismo, sessismo, razzismo: nella linea tesa fra Policleto e Canova inesistenti erano infatti le trasgressioni ‘globaliste’, l’indice faceva propria una separazione netta fra maschile e femminile nel contrapporre le categorie di ‘energia’ e ‘pathos’, mentre l’interesse per il contemporaneo ordinava, timido, un catalogo sparuto fatto di pochi Rodin, molti Renoir, discreti Picasso. Del resto lo storico dell’arte sarebbe stato di lì a un decennio il padre di una serie per la BBC dal titolo inequivoco, Civilisation, consacrata alle sorti progressive del pensiero occidentale: una maratona apertasi – a nemmeno un anno dagli eventi del maggio francese – sui boulevards della Parigi elegante e terminata, con l’episodio Heroic Materialism, dai disastri della I Guerra Mondiale e da quelli, non meno caotici, delle moderne tecnologie…
Come se non bastasse, The Nude era dedicato all’amico Bernard Berenson, un pontefice la cui autorità intellettuale appariva quanto meno compromessa nel sorgere postbellico di ultime tendenze ermeneutiche e di inediti dispositivi d’interpretazione, salvo invece il fascino ineludibile del personaggio-profeta in squisito eremitaggio sulle colline fiesolane.
Così, mentre le lectures – nel clima diffidente dell’America maccartista – erano state sponsorizzate senza titolo, per non urtare il pubblico borghese della capitale statunitense, il verbo classicista professato nel libro fu presto travolto da un revisionismo critico, pure intimidito dalla temerarietà del compito che lo studioso aveva scelto di accollarsi. È innegabile infatti che – col trascorrere dei decenni e fino all’inizio del nostro millennio – la fatica di Clark sia rimasta come la pietra di paragone fondamentale per chiunque intendesse dedicare un’attenzione profonda alla storia del nudo, allo splendore della pelle esposta e tesa in una politezza senza rughe: un compendio privo di paragoni in una bibliografia fatta di contributi puntuali e circoscritti, con la sola brillante eccezione di un saggio di Nikolaus Himmerlman, incluso nel 1985 da Salvatore Settis nei benemeriti volumi arancioni della Biblioteca d’Arte Einaudi.
Del resto, fra anni settanta e novanta, la curiosità degli studi – sia quella dei contemporaneisti che quella dei modernisti – si proponeva piuttosto di superare la soglia degli strati epidermici per affacciarsi sulla vertigine orrorifica della macchina corporea; così, all’improvviso, le anatomie condotte negli spedali cittadini rispondevano alle azioni della body art, mentre la macabra sofferenza dei santi martirizzati echeggiava d’un tratto – in un medesimo eccesso di porpora e vermiglio – le allegre atrocità del gore e dello splatter. Manifesto riassuntivo di una simile démarche, alla base di una più esatta comprensione del rapporto fra icona dipinta e indagine ‘dal vivo’, è stata la smilza trattazione di Georges Didi-Hubermann, Ouvrir Vénus, apparsa nel 1999 per le prestigiose edizioni Gallimard nella collana «Le Temps des images»: officina di un’aggiornata ontologia delle immagini, che – nel dimenticare le sottili deformazioni delle Veneri botticelliane – sceglieva piuttosto di commentare nel ricco catalogo del pittore le crudeltà favolose della serie di Nastagio degli Onesti (divisa fra Firenze e Madrid), in cui un’amante irriconoscente è sbranata, svestita, da una muta di cani sotto agli occhi di una folla sbigottita.
Sembra dunque annunciare tempi nuovi l’apparire di diverse pubblicazioni (e di una rilevante iniziativa espositiva), in pochi mesi a cavallo del 2018 e del 2019, dedicate al Nudo con un focus specifico sul Quattro e Cinquecento, secoli di incubazione e svolta già per il résumé informato di Clark; tanto più che tutti questi tomi, monografie o cataloghi, si radicano nell’ambiente universitario americano, coinvolgendo un museo importante come il Getty di Los Angeles. James Stourton – il biografo di Clark che ha edito nel 2016 un suo profilo esistenziale, simpatetico senza risultare partigiano – ricordava infatti come l’inchiesta sulla ‘forma ideale’ fosse «il risultato della cauta infatuazione di Clark per gli Stati Uniti, un affaire sempre più intenso»; non è pertanto un caso che le meditazioni odierne, firmate da Jill Burke, Patricia Lee Rubin, Thomas Kren e Stephen Campbell prendano avvio da una dichiarazione d’amore siffatta, nel ricorso a comuni strumenti critici per metterne in discussione risultati e presupposti.
Burke, che si è dedicata al soggetto attraverso articoli e saggi, è infine arrivata a comporre un’esplorazione più estesa, The Italian Renaissance Nude, uscita per Yale (pp. 240, 120 illustrazioni a colori, $ 60.00): la sua riflessione si inaugura, non a caso, proprio con uno degli assunti dell’argomentare clarkiano, la distinzione cioè fra i termini nude (nudo) e naked (che in italiano – lingua resistente al sottile discrimine di cui si carica in inglese la coppia di termini – potrebbe tradursi come «denudato»). Rintracciandone l’origine nel lessico artistico messo a punto nel clima dell’estetismo britannico, fra Oscar Wilde e Roger Fry (si cita una nota di Walter Sickert del 1910), la studiosa ribalta infatti le argomentazioni del volume del ’56, affermando che un simile distinguo – lungi dall’esser mediato da una qualche forma di equilibrio (di ‘distanza’, insomma) pertinente alla perfetta costruzione di un corpo senza veli – debba semmai venir ricondotto allo sguardo di un osservatore esemplare, al suo portato in termini di cultura visiva.
È parlante, a questo proposito, la proposta avanzata al riguardo del David di Donatello, la figura di giovinetto – al Museo nazionale del Bargello, eseguita probabilmente fra gli anni trenta e quaranta del Quattrocento – sulla cui nudità si sono spese pagine e pagine, dalla monografia di Horst Janson del ’57, favorevoli o contrarie a una sessualizzazione (in chiave omoerotica) della scultura. La Burke – pur rivendicando la necessità di valutare il ‘desiderio’ e la ‘scopofilia’ in una corretta ponderazione del tema, grazie a un raffronto serrato con le fonti d’epoca – sottolinea quanto, per la concezione sanitario-legale diffusa a Firenze, il bronzo donatelliano dovesse essere automaticamente sovrapposto alla silhouette di un ‘fanciullo’ (da cui l’assenza di peli, anche pubici); e che tale caratterizzazione avrebbe pertanto disseccato il fisico liscio della statua dal calore di un qualsiasi appeal sensuale. Circa la stessa opera, la Rubin – autrice di un articolo documentatissimo dal titolo ‘Che è di questo culazzino!’: Michelangelo and … the Male Buttocks in Italian Renaissance Art – arriva però a conclusioni opposte, valutando quanto la cultura omofila diffusa in città, fra costume inveterato e revival umanistico, dovesse colorare l’interpretazione di una figura siffatta, in particolare se ne si considera la sistemazione al centro del cortile di Palazzo Medici, aperta a un moltiplicarsi di punti di vista discordanti.
Questo risultato è quanto mai significativo. Le due studiose partono infatti da presupposti teorici analoghi – citano entrambe, esplicitamente, il saggio epocale di Linda Murray, steso nel 1973, consacrato alla predominanza dello ‘sguardo maschile’ nella produzione visiva della contemporaneità – e accettano, in fondo, un medesimo canone (che, per la realtà toscana, passa da Masaccio giungendo a Leonardo e Michelangelo via Pollaiolo e Verrocchio). La Rubin – nel libro titolato Seen from Behind, anch’esso stampato da Yale (pp. 288, 263 illustrazioni fra colore e b/n, $ 60,00 – fa però propri gli schemi della queer theory, sottolineando come il binarismo del genere sia un modello inadeguato anche per il commento del nudo rinascimentale. In una prospettiva cronologica più dilatata, percorsa in linea retta e poi a ritroso, la studiosa rivendica perciò per il XV e XVI secolo il calcolo di un’osservazione voyeuristica (l’altra colonna portante, insieme all’esperienza del flâneur, per l’esplorazione della Modernità); e, concentrandosi sulla schiena e il culo maschili come motif ricorrente, si spinge a giocare sui termini di individualizzazione e genericità, secondo un’accezione capovolta rispetto alla Burke (che proprio nella possibilità di riconoscere il volto di un ‘nudo’ risemantizza il valore di quest’ultimo, come nel caso della Fornarina di Raffaello).
In un simile contesto, la mostra del Getty – The Renaissance Nude, fino al 27 gennaio – dimostra un aggiornamento metodologico attuale, nei bei saggi di C. Jean Campbell e Davide Gasparotto, così come nell’introduzione firmata a sei mani dai curatori (fra cui la stessa Burke): nell’esemplare in un percorso articolato l’evoluzione del soggetto, citando una grande ricchezza di media artistici (dalla pittura alla scultura, passando per la grafica e la miniatura, le incisioni e la trattatistica), opta per un allargamento del corpus ampiamente mediterraneo raccolto da Clark, dedicando più spazio di quanto facesse The Nude alla cultura settentrionale, al suo portato tragico e esistenziale di pelli ferite e sofferenti, alla concettualizzazione esasperata di una tradizione alternativa che convoca con forza al centro del dibattito il polo dialettico, retorico del ‘naturale’ di fronte a quello, non meno artificiato, dell’ ‘ideale’.