A volte i libri sono come le persone: possono farci paura sia per il loro aspetto fisico che per quello che hanno dentro. L’Atlante Mondiale dell’architettura del XX secolo, pubblicato ora in Italia dall’Electa e uscito per la prima volta nel 2012 per Phaidon, appartiene certamente alla prima categoria. Pesa una decina di chili; con la confezione – senza la quale trasportarlo è impossibile – è alto come un bambino di cinque anni e, infatti, sta in piedi; con le sue dimensioni umilia qualsiasi scaffale «fuori formato» in qualsivoglia biblioteca. Insomma, intimidisce non poco, a prescindere dalla possibile familiarità del contenuto. Anzi proprio lo strano mix di formato assurdo e contenuto potenzialmente noto, fa si che ci si metta un po’ a decidersi ad aprirlo e provare a sfogliarlo.
Ci si tiene a distanza. Poi a un certo punto la curiosità prevale, e una volta che ci si è liberati dal packaging arancione in stile champagne gigante e del cellophan tenace che lo avvolge, si può cominciare a guardarci dentro. Dentro ci troviamo un libro fatto a schede: ogni pagina è dedicata a un edificio, gli edifici sono messi in sequenza in ordine geografico, per continenti, regioni, singoli stati. Le schede non sono precedute da saggi introduttivi ma da mappe e grafici statistici, che tendono a inquadrare i fenomeni architettonici in relazione ai contesti geografici, antropologici ed economici. Insomma se l’architettura è un virus, come vorrebbero i più situazionisti tra noi, allora si propaga allo stesso modo dell’aviaria, attraverso la migrazione dei portatori (sani?) e le reti commerciali e di trasporto.
Dopo i grafici, sui quali però ci si sofferma a lungo, volentieri e con curiosità, si arriva finalmente all’architettura del XX secolo, o almeno alle 757 schede scelte per rappresentarla. 757 edifici costruiti, identificati all’interno delle sezioni geografiche dell’atlante per categorie funzionali (monumenti pubblici, scuole, case ecc.) e diluiti lungo tutto l’arco del secolo. E forse è proprio quest’ultima la caratteristica che inizialmente ci colpisce di più: «vedere» il novecento tutto insieme, dai primi vagiti del modernismo a Hilversum (Dudok, 1911) o a Chicago (Wright, 1906) fino alle torri hi-tech degli ultimi anni novanta, con i grattacieli di Dubai, Kuala Lumpur, Hong Kong.
Ormai siamo abituati a manuali di storia dell’architettura (che peraltro ultimamente latitano) con apparati iconografici striminziti; o a visioni storiografiche che non hanno nessuna voglia di ricomporre la seconda metà del secolo con la prima, l’architettura della democrazia matura con quella eroica, che si confrontava con guerre e totalitarismi. Ossessionati dalle tematiche postwar (spesso italiano) abbiamo perso l’abitudine a guardare al «secolo breve» nel suo complesso, cosa che invece l’atlante fa, appunto, senza complessi.
L’assenza di saggi, bibliografie, strutture critiche, inizialmente inquietante, ci permette di focalizzarci su alcuni aspetti più statistici, enfatizzati dall’ampia presenza di grafici e dalla riduzione dell’indice a un elenco numerale. In sostanza, il libro sembra ridurre tatticamente l’architettura del secolo moderno a tre parametri essenziali: la geografia, la storia, la funzione. Possiamo così notare che l’architettura moderna è ancora un fenomeno strettamente europeo: gli edifici localizzati nel vecchio continente sono infatti 363 contro i 125 del Nord America, i 109 dell’Asia, i 68 (!) in Sud America, i 60 in Africa e i 68 in Sudamerica.
Non sorprenderebbe vedere qualche storico americano postcolonial storcere il naso, o qualche latino protestare per il fatto che il Centroamerica non esiste proprio (annesso al Nord) e che il Sud America, uno dei focolai di architettura più vivaci, ha solo 8 schede in più rispetto all’Africa delle cui vicende architettoniche prima di questo atlante conoscevamo davvero poco. Controllando, si capisce ad esempio che tutta Brasilia, dove solo Niemeyer ha realizzato una cinquantina di progetti (non tutti indimenticabili), è raccolta in una lunga scheda complessiva, così come avviene anche per altri progetti urbani di Lucio Costa e dello stesso Niemeyer. Mentre ovviamente commuove vedere raccolti e accostati ai capolavori del novecento i lavori di Lina Bo Bardi o le chiese uruguayane di Eladio Dieste o altri progetti eroici di Mendes Da Rocha e altri modernisti del Sur.
L’Africa invece è un catalogo delle varie epoche del colonialismo (politico e poi culturale), ma non manca di lavori di progettisti locali genialmente vernacolari, come nel caso di Hassan Fathy in Egitto e di alcuni lavori localizzati in Mali e altri stati subsahariani. Un altro dato che l’Atlante racconta molto bene è la «distribuzione» degli edifici nei vari territori. Ancora una volta l’Europa si conferma come la patria dell’architettura del novecento, con una diffusione abbastanza omogenea degli edifici mappati sul territorio.
Inutile dire come l’impressione sia molto diversa negli altri continenti: nelle Americhe l’architettura sembra arrivare dal mare (come l’immigrazione, appunto) e concentrarsi naturalmente sulle coste, in Asia è un fenomeno tutto legato alla crescita (recente) delle megacittà, in Africa dipendeva dalle geografie coloniali prima e cooperative poi, e ora ha natura perlopiù sporadica.
Diamo uno sguardo in casa nostra: l’Italia ha 40 schede, contro le 27 della Francia (!) e dell’Olanda, le 44 tedesche e le 25 di Spagna e Portogallo insieme. Insomma, nonostante le lamentazioni recenti (comprese le mie), a uno sguardo lungo che abbraccia tutto il secolo l’Italia appare ancora come uno dei paesi a più alto tasso di architettura. Una dozzina di edifici datano prima del ’40 e molto pochi agli ultimi due decenni. Il che vuol dire che la parte del leone la fa giustamente il dopoguerra, forse la fase più vitale della ricerca architettonica italiana.
Lo spartiacque della seconda guerra mondiale funziona ancora abbastanza bene, ma l’Atlante conferma come la geografia in questo campo sia più efficace della storia. Lo notiamo quando vediamo la datazione di edifici che hanno avuto storie lunghe e complicate, o quando vediamo l’Eur posizionato al 1984 (?). Per gli amanti della statistica e della geopolitica segnaliamo che solo 6 dei 40 edifici italiani non sono al Nord e che di questi 6 cinque sono a Roma e solo uno (casa Malaparte, ça va sans dire) al Sud. Solo gli Stati Uniti hanno più schede di Germania e Italia, ma questo, a parte la dimensione del paese e la solida tradizione architettoniche italo-tedesca, forse ci dice qualcosa anche sulle strategie di marketing di Phaidon.
Due ultimi temi, solo da sfiorare. Il primo consiste nell’evidente prevalenza, soprattutto in Europa e nell’age d’or del rapporto tra architettura e politica, di progetti di committenza pubblica (scuole, servizi pubblici, housing). Quasi a ricordarci che siamo abituati a pensare all’architettura come a un prodotto del welfare democratico, e che forse oggi questa convinzione non ha più un riscontro né immediato né facile nella realtà. Il secondo l’ovvia possibilità di scorrere questo libro solo come una collezione di capolavori magnifici che difficilmente ritroveremo tutti insieme: dalle case di Le Corbusier ai musei di Scarpa a ciò che resta del Costruttivismo russo alle meraviglie sudamericane a Terragni, Aalto, Mies van der Rohe e chi più ne ha più ne metta.
Non c’è invece posto, in una rassegna di questo genere (per questo davvero diversa da una storia) per i capolavori effimeri, le grandi mostre, i progetti demoliti o mai realizzati. Non potremo mai trovarci, insomma, il Teatro del Mondo di Aldo Rossi o la Torre di Tatlin.