La sera in cui Edmond Jabès arrivò a Parigi, in fuga dal regime di Nasser, vide di colpo comparire su un muro dalle parti del Jardin des Plantes, illuminata dai fari di un’automobile, una scritta che risaliva ai tempi della Occupazione e che lui avrebbe valutato per tutta la vita alla pari di una maledizione a cadenza rediviva e, insieme, di un oroscopo fatale: A mort les juifs. Ebreo apolide e laico, Jabès aveva trascorso la giovinezza al Cairo, dunque relativamente al riparo dalla esperienza diretta della persecuzione antisemita e della Shoah, eppure il suo riflesso di creatura braccata e all’improvviso vulnerabile era lo stesso di cui Primo Levi avrebbe resa nota la dinamica quasi trent’anni dopo intitolando Ad ora incerta la breve raccolta delle sue, talora stupende, lapidi poetiche. Quella scritta casualmente riemersa nel palinsesto urbano somigliava troppo, nel suo manifestarsi immemore e persino sbadato, al ricordo del Lager che il dottor Primo Levi, dopo giorni o settimane di apparente rimozione, affermava tornasse all’improvviso, e con violenza lancinante, nel suo laboratorio di chimico o nel corso di un consiglio di amministrazione. Quella anonima e oramai slavata delazione, così come il ricordo spasimante che esige di agganciarsi di nuovo alla parola, rispondono entrambi, ovvero si rifiutano di sottostare, al celebre decreto di Theodor W. Adorno (in effetti un paradosso presto divenuto un disarmante stereotipo) secondo cui, dopo Auschwitz, scrivere poesia, pretendere di dedurre o di apportare bellezza al mondo, equivarrebbe a un gesto barbarico, nefando. Se Jabès gli avrebbe rammentato che «non si racconta Auschwitz, ma ogni nostra parola lo dice», Levi avrebbe molte volte ribadito che l’ombra di Auschwitz non può essere che eterna e ubiquitaria e che dunque Auschwitz è il presente perpetuo, anche se in absentia, non soltanto dei superstiti ma anche e soprattutto dei posteri in quanto esseri umani.

Max Jacob, Jean Cayrol, Nelly Sachs

Le risposte all’interdetto di Adorno in realtà sono state innumerevoli come ora testimonia Nell’abisso del lager Voci poetiche sulla Shoah (Interlinea, pp. 291, € 18,00), una corposa antologia a firma di un nostro ottimo italianista, Giovanni Tesio, nella cui bibliografia spiccano alcuni contributi leviani fra cui il recupero di una conversazione intitolata Io che vi parlo (Einaudi 2016). Levi è anche il nome inaugurale della antologia che ha una duplice bipartizione fra testi in italiano e in lingua straniera come fra testimoni diretti del Lager e autori che a più o meno distanza di spazio e di tempo hanno riflettuto sulla eredità del Lager, i primi «più immediati e più coinvolti per una impellenza emotiva o per una necessità testimoniale o per un prolungamento quasi paradossale di vitalità», gli altri, prosegue Tesio, perché richiamano «l’esperienza e la memoria del Lager nel tessuto vivo della loro poetica e della loro visione del mondo». Le voci sono decine, la selezione antologica è necessariamente rapida ma nel complesso appare equilibrata, equanime. Presenti tutte o quasi le voci canoniche, fra i testimoni o i contemporanei della Shoah, è notevole l’inclusione di certe altre fisionomie più defilate o poco conosciute: fra gli italiani, per esempio, Lodovico Belgiojoso e, sia pure per due soli brevissimi testi, Bruno Vasari, cui Primo Levi dedicò, cifrandone il nome, Il superstite che è l’eponima tra le poesie di Ad ora incerta. Naturali, d’altronde, risultano le inclusioni di Max Jacob, Jean Cayrol, Nelly Sachs e Paul Celan di cui si legge la celeberrima Todesfuge, tuttavia in una versione (Dario Borso, Einaudi 2016) che non è affatto preferibile a quella corrente di Giuseppe Bevilacqua (perché ad esempio il verso-chiave, e da Celan reiterato, Der Tod ist ein Meister aus Deutschland, andrebbe qui tradotto non tanto «la morte è un maestro tedesco» quanto, e in maniera decisamente più pregnante, «la morte è un maestro che viene dalla Germania»).
Merito di Tesio è comunque l’avere collocato nel baricentro della antologia un ampio lacerto di uno dei grandi poemi del secolo, il Canto del popolo ebraico massacrato, del polacco Itzhak Katzenelson (1886-1944), che lo scrisse in yiddish e lo nascose poco prima di essere deportato e messo a morte in Auschwitz. Già aderente al Bund, il partito ebraico dei socialisti rivoluzionari, grande tempra di scrittore epico e corale, Katzenelson vibra entro il medesimo diapason che era stato di Whitman e Majakovskij: Tesio utilizza la più recente edizione Mondadori (a cura di Erri De Luca, 2009) ma sarebbe stata forse preferibile la precedente a cura di S. Sohn D. Vogelmann (Giuntina 1995) da cui Moni Ovadia trasse il memorabile oratorio poi incluso nella drammaturgia di Binario 21 ed eseguito per la prima volta alla Stazione Centrale di Milano nel 2010 alla presenza di un’unica spettatrice, l’ex deportata Liliana Segre. Ecco un passo eloquente del Canto, dove nemmeno l’enfasi fa velo alla chiarezza della sua pronuncia: «Per cosa? Non chiedete, nessuno: per che cosa? Perché dalla migliore alla peggiore, ogni nazione sa. / La peggiore ha dato aiuto al tedesco, la migliore ha guardato con un occhio, fingendo di dormire. / No, no, nessuno verrà a chiedere conto, né indagherà, né chiederà: per che cosa, così?/ Il nostro sangue è gratis, si può spargere, possiamo essere distrutti, assassinati in piena impunità».

L’assenza di Edmond Jabès
Degli autori eminenti, nella antologia, va notata l’assenza di Jabès, specie il poeta in versi terminale, sempre più rastremato e siliceo, già virtualmente testamentario, di Poesie per i giorni di pioggia e di sole (nella versione di Chiara Agostini, Manni 2002) e la mancanza del poemetto di Franco Scataglini, Carta laniena (1982), un apice della nostra recente poesia, dove l’«angoscia abreva» (cioè «ebrea», per metaplasmo) diviene allegoria della condizione umana in sé; quanto infine a Vittorio Sereni, pur presente con due testi, colpisce non sia stato inserito, ancora da Gli strumenti umani (’65), Nel vero anno zero che impatta con violenza inaspettata, circa un autore della sua mitezza, l’ambiguo decoro della Germania appena ricostruita, del tutto ripulita all’esterno ma murata nella atrocità di colpe inespiabili e nel silenzio dei propri inconfessabili tabù. Viceversa utilissima è la decisione di includere una doviziosa sequenza di poeti italiani delle generazioni più recenti, con qualche recupero opportuno (Emilio Jona, Compagni se vi assiste la memoria; Giovanni Giudici, La persecuzione razziale; David Maria Turoldo, Litania del deportato; Ermanno Krumm, Ancora di lui) e la piena valorizzazione, fra gli altri, dei versi di Antonella Anedda, Anna Maria Carpi, Franco Buffoni, Gianni D’Elia, Giorgio Luzzi e Fabio Pusterla.
Benemerita, infine, è l’inclusione di tre testi di un raffinatissimo poeta mancato ancora molto giovane nella sua Cesenatico oltre vent’anni fa, Ferruccio Benzoni, che in Numi di un lessico figliale (Marsilio 1995) detta la dedica più straziata (Verso il venti d’aprile) al poeta gettatosi il 20 aprile del ’70 nella Senna per non più sostenere la propria condizione di scampato o forse per non più tollerare i delitti del suo secolo immondo e genocida: «Con uno spolverìo di neve / che c’era o no furiosamente / scrosciando in acquitrini. / Ma un fardello c’era galleggiava / tra tomaie e pastrani / – o fu solo un cauchemar giù/ gettarsi/ la morte in auge come un’elegia / sig. Paul Celan».