Nell’anniversario della morte di Filippo Gentiloni, ripubblichiamo cinque riflessioni laiche per tutti i credenti: cattolici, ebrei, ortodossi, protestanti. «Buone pasque» ai lettori, nella festa della primavera, quando le radici si rafforzano in un passaggio terreno e simbolico di cambiamento.

L’invisibile pieno del sepolcro vuoto

il manifesto, 23 aprile 2000

Pasque, al plurale. Siamo troppo abituati a una sola Pasqua, al singolare: quella cattolica, come se le altre non esistessero o fossero di serie B.

Dobbiamo, invece, riflettere sulle varie Pasque cristiane e soprattutto su quella Pasqua che ha dato loro origine, quella ebraica.

Pluralità di date, prima di tutto, ma anche di riti, simboli e significati. E date, che hanno la loro importanza. Quest’anno sono vicine, quasi a toccarsi: comunque non coincidono.

L’anno 2000 (il 57621 del calendario ebraico) la Pasqua ebraica, che dura otto giorni, ha già avuto inizio la sera di mercoledì. Oggi festeggiano la Pasqua cattolici e protestanti, gli ortodossi il 30 aprile.

Sono i calendari a non coincidere, anche se per tutti la festa corrisponde al primo plenilunio di primavera. Festa di rinascita, dunque, se non proprio di resurrezione. Rinascita della vita e della natura.

Il Salmo 65, una sorta di «inno alla primavera», canta: «Di esultanza inneggiano i campi/ si rivestono i prati di greggi / e di messi si ammantano le valli:/ tripudianti vi salgono cori» (trad. di D. M. Turoldo). Per tutti, dunque, festa della vita che riprende a fiorire dopo una morte, quella dell’inverno.

Non a caso la celebrazione è anche festa del gruppo (famiglia, comunità) intorno a una mensa, la mensa di famiglia per il seder ebraico, quella dell’altare per la Pasqua ortodossa e cattolica. Più sobria la Pasqua protestante, che vuole custodire la sostanza della celebrazione senza indulgere eccessivamente alla sacralità.

Prototipo del rito, quello ebraico. Niente lievito, simbolo del vecchio da eliminare o superare: tutto deve essere nuovo, anche il pane azimo. Si mangiava in fretta, i calzari ai piedi e il bastone in mano, pronti per il viaggio: il vecchio da abbandonare verso la libertà è l’Egitto del faraone.

Il pasto pasquale è intercalato dalle domande dei bambini a cui si risponde con il racconto dell’Esodo, l’epica nazionale che narra l’uscita dall’Egitto, la liberazione. Il significato religioso e quello politico s’intrecciano indissolubilmente.

[do action=”citazione”]Abbiamo esaltato troppo il trionfo della «passione» del venerdì. Ma il Gesù risorto non si fa vedere. È in cammino, sempre[/do]

La Pasqua cristiana, con i suoi molti riti sottolineerà soprattutto il passaggio. Sullo sfondo di quello del Mar Rosso, il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dal male al bene, dal peccato alla grazia, dalla schiavitù alla libertà, soprattutto nelle teologie politicizzate come quella latinoamericana della liberazione.

Ma tutta la nostra vita, in fondo, è un passaggio: perciò la Pasqua è metafora non solo della natura che rinasce ma di tutta la vita e della vita di tutti. La nostra primavera. Il nostro viaggio.

Anche nei riti cristiani si getta via il vecchio. Nelle nostre case, almeno fino a ieri, le pulizie «pasquali». Nell’Europa orientale si brucia il vecchio fieno, si buttano via pupazzi di paglia.

Il rito ortodosso è festoso e fastoso: molti canti e ceri che si accendono a mezzanotte. Ma la liturgia sa che ogni passaggio (ogni viaggio) è duro: il Mar Rosso, il deserto prima di arrivare a tutte le terre promesse. Ogni passaggio comporta l’eliminazione di qualcosa, il vecchio lievito, il vecchio uomo che è in me. Altrimenti non si fanno passi avanti.

Le varie denominazioni cristiane hanno sottolineato che a Pasqua non si arriva se non attraversando un amaro venerdì santo, la crocefissione.

Si pensi a quanti musicisti cristiani, soprattutto protestanti come Bach, hanno cantato le «passioni» dei quattro evangelisti. Non a caso, più la passione che la resurrezione; più il venerdì che la domenica.

La tradizione cattolica ha piuttosto esaltato il Cristo risorto, la fine trionfale del passaggio di Pasqua. Senza dimenticare il crocefisso, si è preferito sottolineare la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Come se la terra promessa fosse già stata raggiunta, in Cristo, da tutti.

Forse bisognerebbe restituire dignità e importanza a un altro simbolo, fra quelli che i vangeli ci propongono: il sepolcro vuoto. Un vuoto importante nella storia della Pasqua e troppo presto sostituito dai «pieni» del trionfalismo.

Il Gesù risorto non si fa vedere: è in cammino, ancora e sempre, per le «misteriose vie della città», come scrive Dostoevskij concludendo la parabola del Grande Inquisitore.

Buone Pasque

il manifesto, 16 aprile 1995

Pasqua: campane a stormo, mandorli e peschi in fiore, agnello al forno e uova di cioccolata.

Se vogliamo andare al di là di questa festa di primavera per recuperarne un senso autentico dobbiamo riandare alla pasqua ebraica, pesach.

Senza pesach, la pasqua cristiana, se non si riduce alla festa di primavera, è una bandiera che sventola al vento della vittoria anche dove vittoria non c’è, è un happening di vita mentre la morte ci circonda, o si riduce ad un annuncio trionfale, ma rinviato, millenaristico.

Una specie di breve intervallo, dopo il quale la morte riprende il suo dominio. A quando, questa vittoria? Se vogliamo una pasqua vera, dobbiamo ricorrere all’ebraismo, a pesach. Passaggio, guado. Uscita, liberazione. Cambiamento, avventura. Vita nuova: si pulisce a fondo la vecchia casa, si rivedono le abitudini incallite (Dio, patria, famiglia), si butta via perfino il lievito con cui si faceva il vecchio pane: il nuovo sarà non fermentato, azzimo.

E si racconta una antica storia. Per la novità è essenziale la memoria, e per la memoria è essenziale il racconto (la aggadah degli ebrei).

Pesach è anche la affermazione della priorità del genere letterario «racconto» (narrazione, romanzo: quasi un giallo, ma tutto il discorso religioso, in fondo, lo è) sugli altri generi che, pure, spesso sembrano più adatti a un testo sacro: leggi, principi, comandamenti, preghiere; anche tutto ciò, ma soprattutto la narrazione di un racconto. Ricordato, rivissuto, rinnovato: ancora una volta in piedi, con il bastone del pellegrino in mano, pronti a partire.

Pesach è proprio una partenza più che un arrivo, l’inizio di un viaggio più che il suo percorso, una nascita più che una resurrezione.

Gli ebrei erano prigionieri del faraone in Egitto, ma nella notte fra il 14 e il 15 del mese di nisan JHWH li chiama a celebrare la cena con il pane azzimo e a uscire (Esodo è il libro biblico che racconta) dalla oppressione: li accompagnerà verso la libertà e loro, ogni anno ricorderanno di generazione in generazione, nel seder, la cena di pesach, quel gesto di amore (del racconto fa parte la lettura del Cantico dei cantici, il poema dell’amore).

[do action=”citazione”]Uscita, liberazione, cambiamento, avventura. L’addio all’inverno amaro è l’inizio di una vita nuova. La nascita dell’amore[/do]

Pesach, cioè esodo, riconquista della libertà, rinnovamento, conversione, rifiuto di ciò che è vecchio in nome di qualche cosa di antico e nuovo. Sul fondamento di pesach si è innestata la pasqua cristiana: quel Gesù che Pilato aveva mandato a morte proprio il giorno dopo avere celebrato con gli apostoli la cena di pesach, non ha concluso con la crocefissione la sua storia. La morte non ha detto su di lui l’ultima parola, non l’ha chiuso nello spazio di una tomba.

Il Cristo risorto, anche se si sottrae alla afferrabilità delle prove storiche, indica la via della ìèvita: resurrezione, cioè novità, speranza, attesa, solidarietà, amore (nei termini del catechismo: fede, speranza, carità).

Non che il passaggio degli ebrei dall’Egitto alla terra promessa sia identico a quello di Gesù dalla morte alla vita, ma il secondo non si comprende senza il primo, anche se bisogna evitare quelle celebrazioni pasticciate e omologate che non giovano alla vera comprensione né del giudaismo che del cristianesimo.

L’uno e l’altro, comunque, hanno in comune – e pesach-pasqua lo ripete ogni anno con la forza del racconto – una certa visione dell’uomo e della storia, quella che con chiarezza anche se con una estrema semplificazione, si suol dire rettilinea.

Niente ritorni indietro, niente nostalgie verso paradisi perduti, niente soste per contemplare se stessi e neppure le proprie colpe. Si va avanti, giorno per giorno. Ci si impegna nella storia e nella geografia, si cerca di uscire dal concreto Egitto verso una concreta terra promessa, non si vola nei cieli delle eterne e immutabili certezze.

Pellegrini in ricerca siamo, camminatori, esploratori: ci siamo lasciati dietro le spalle le nicchie comode (la Bibbia diceva «le cipolle» d’Egitto, che dovevano essere molto gustose) e ora attraversiamo il deserto, senza rimpianti e senza illusioni.

La storia è la nostra terra santa: la nostra chiesa, se volete. La storia: quella di ciascuno e di tutti, fatta di molto deserto e di poche – spesso false – bandiere al vento. Di qualche passo avanti e di molti indietro.

Non con le illusioni di Hegel o delle magnifiche sorti progressive, ma – per chi vuole – con i riferimenti aspri (la cena pasquale era condita con erbe amare) di pesach – pasqua.

«Pesach», una storia di attesa e di speranza

il manifesto, 20 aprile 1997

Domani è la Pasqua ebraica. Rischiamo di dimenticarla, nonostante le nostre sbandierate aperture e i nostri affermati ecumenismi. Siamo ancora travolti dai festeggiamenti piuttosto trionfalistici della Pasqua cristiana, poche domeniche fa.

Ma qual è il rapporto fra le due Pasque? (Anche la Pasqua ortodossa è festeggiata in un’altra data, ma la sua sostanza è molto simile a quella cattolica).

Quella cristiana è una forma di «deviazione», come vogliono gli ebrei, o una forma di «superamento», come dicono i cristiani? La risposta implica un discorso completo e profondo.

Meglio limitarsi a conoscere la Pasqua ebraica, poco nota nel nostro paese, nel quale gli ebrei rappresentano una piccola minoranza, anche se di grande nobiltà religiosa e culturale.

Gli studiosi ci dicono che le origini lontane della festa pasquale risalgono ai riti di primavera, presenti presso tutti i popoli e culture. Significano novità, germogliare di vita, ripresa, rinascita dopo la «morte» dell’inverno.

Vale la pena di accennare, anche se in maniera molto incompleta, ma – spero – non inesatta, alle ricchezze simboliche del rito ebraico della Pasqua, il seder, che significa «ordine». La celebrazione rituale, infatti, si svolge secondo un ordine ben stabilito, anche se con varianti storiche e geografiche.

Si tratta di una celebrazione domestica, familiare: vi domina il racconto (una grande lezione di letteratura) impostato tenendo sempre presenti i bambini, le loro domande e risposte (una grande lezione di pedagogia).

Nei giorni precedenti si è eliminato dalla casa tutto il pane lievitato: è il «vecchio» che deve morire. Si cena, ora, con il pane nuovo «azimo», senza lievito. In tavola un vassoio con i cibi simbolici carichi di storia: accanto al pane azimo, una zampa di agnello arrostita, a ricordo del sacrificio pasquale che si compiva nel tempio di Gerusalemme; le erbe amare, a ricordo delle amarezze degli ebrei nel tempo della schiavitù; un uovo sodo, perché ha una superficie che non ha né inizio né fine, come l’eternità della vita.

Poi una cena normale, interrotta da racconti, canti, preghiere, molti salmi. È la «aggadah» (narrazione) di Pasqua con leggende, allegorie, riflessioni morali, aforismi popolari, reminiscenze storiche. E una conclusione piena di speranza: «L’anno prossimo a Gerusalemme!».

In questa brevissima descrizione i cristiani troveranno molti elementi analoghi alla loro Pasqua, dalla celebrazione in una cena che, ovviamente, è stata quella celebrata anche da Gesù con gli apostoli prima della passione, al concetto centrale di liberazione. Ma si devono evitare sia le illusioni che le confusioni. Gli «inciuci», come oggi si usa dire, non giovano al vero dialogo.

Sullo sfondo ebraico della uscita dall’Egitto, i cristiani hanno inserito, in maniera egemonica e dominante, la memoria della resurrezione di Gesù, memoria che non soltanto è estranea all’ebraismo, ma ne contraddice l’essenziale attesa del messia venturo. Una differenza abissale.

Oggi larghi settori cristiani cercano di diminuirla, riportando in primo piano, anche nella loro celebrazione pasquale, la liberazione dall’Egitto, che può offrire anche una chiave di lettura religioso-politica (così anche nella teologia della liberazione). Una rivalutazione che può risultare interessante, ma non toglie la differenza.

Leggo nel Lessico dell’incontro ebraico-cristiano, di Petuchowski e Thoma (Queriniana): «Nella dualità pesach/pasqua si manifesta, accanto alle numerose somiglianze, la più grande disparità fra le fede cristiana e quella giudaica. … Trattando della pasqua e celebrando la pasqua, il cristiano deve usare la massima discrezione e una enorme sensibilità e rispetto per le tradizioni giudaiche sul pesach…».

Con grande rispetto e coscienza delle differenze, dunque, auguriamo «Buona Pasqua!» ai nostri amici ebrei.

La novità dell’Esodo

il manifesto, 11 aprile 2004

Il divino di oggi non può dimenticare la domenica di Pasqua, ma, d’altra parte, non vorrebbe limitarsi alla festa cristiana della resurrezione di Gesù. Un dilemma dal quale si può uscire, senza togliere nulla alla Pasqua cristiana, ricordando le radici che la hanno preceduta e fondata. Radici che rimangono, rinvigorite e rafforzate in ogni primavera.

L’Esodo: il popolo ebraico che si libera dalla schiavitù dell’Egitto e passa il Mar Rosso verso la terra promessa, verso la libertà.

Sembra che, infatti, la radice dello stesso termine «Pasqua» si trovi in quel «pesach» ebraico che significa proprio «passaggio». E a «passare» siamo invitati tutti, ebrei e cristiani, credenti e non.

Il passaggio dice, infatti, una sorta di morte e di resurrezione. Si rinuncia, si rinnega, si rifiuta qualche cosa, ci si distacca in vista di un’altra sponda, al di là di un mare. Ciascuno ha – ha avuto – la sua schiavitù, il suo Egitto; ciascuno ha la sua speranza, la sua terra promessa, al di là del suo mar Rosso.

Una storia, una vicenda, che ha animato popoli e singoli. È stata declinata anche in termini politici. Liberazione, rivoluzione. Ricordiamo, per limitarci alla storia recente, la teologia latinoamericana della liberazione, tutta orchestrata sulla scia dell’esodo biblico, su quelle onde del Mar Rosso che si aprivano al passaggio di Mosè e dei suoi.

Oggi, forse, lo spirito di pesach più che di rivoluzione – termine ben poco di moda – ci parla, più umilmente, di novità.

«Ecco, faccio nuove tutte le cose», dice la Bibbia.

Accettare, apprezzare, la novità. Non dirsi mai troppo vecchio per cambiare. Sapere, ancora e sempre, ammirare, meravigliarsi.

Il libro della vita ancora e sempre aperto, con la penna pronta in mano per scrivere una pagina nuova.

Perciò l’attenzione all’altro, dal quale viene, appunto la novità, l’altra sponda del mar Rosso. La novità – il passaggio – non viene mai dall’io che è lo stesso di ieri, non «passa»: è l’Egitto da cui la Pasqua invita a uscire. La novità viene sempre da fuori, non dallo specchio dell’io, dal quale, invece, come per Narciso, viene la morte, il suicidio.

Il nuovo è l’altro.

La festa di Pasqua ricorda a tutti che la porta è aperta per uscire dall’io. Ricorda la speranza, la possibilità della resurrezione. Possibilità, speranza, spiraglio, non porta spalancata: non di più, ma è già molto. Buona Pasqua a tutti.

Buon passaggio! Buona novità!

Le ragioni della chiesa ortodossa

il manifesto, 19 aprile 1998

Oggi i cristiani ortodossi celebrano la Pasqua: una buona occasione per parlare di quel cristianesimo orientale che nel nostro occidente europeo è scarsamente conosciuto, nonostante la innegabile ricchezza della sua storia e il suo altrettante innegabile influsso sulla società e sulla politica.

La stessa differenza di data nella celebrazione della Pasqua è significativa (i tentativi di unificare le date sono sempre falliti) e rimanda a divergenze profonde, con origini molto lontane nel tempo.

Le controversie teologiche sono state sempre di livello inferiore nei confronti della gravità dei problemi politici.

Fra le prime, la famosa questione del filioque oggi fa sorridere: nella Trinità, lo Spirito – terza persona – discende soltanto dal Padre o anche dal Figlio, come sostiene Roma? Fu quasi una scusa. In realtà, dopo una decina di secoli, Bisanzio, la «seconda» Roma, non accettava più di sottostare alla prima, ridotta a un povero villaggio, e al suo vescovo, politicamente insignificante in un mondo cambiato.

È poi venuto il giorno della «terza» Roma: Mosca, cioè, nel cristianesimo cosiddetto «ortodosso» o orientale, ha preso il posto e di Roma e di Costantinopoli. Un primato, dunque, dettato sempre più chiaramente dalla politica che dalla teologia.

Oggi le varie chiese di oriente – «autocefale», come si suol dire, cioè indipendenti l’una dall’altra – guardano soprattutto al Patriarca di Mosca come punto di riferimento.

Le unisce, comunque, l’avversione nei confronti di Roma, considerata espansionista, prepotente, colonialista. Una avversione che il crollo del muro di Berlino non ha diminuito, come Roma sperava, tutt’altro.

Nel mondo ex sovietico gli ortodossi temono che Roma invada il campo e chiudono le porte. Il papa vorrebbe andare a Mosca, invano.

L’atteggiamento, poi, di Giovanni Paolo II, che si presenta in tutto il mondo come unico rappresentante del cristianesimo, non giova certamente a placare i timori dell’ortodossia che, finiti i regimi comunisti, ha ritrovato il tradizionale sostegno delle autorità statali. L’ottimo rapporto fra Eltsin e il Patriarca di Mosca è significativo, come significativa è stata l’approvazione della legge che pone tutte le altre fedi religiose, compresa quella cattolica, in serie B.

In serie A soltanto il cristianesimo ortodosso, come da tradizione in Russia. Una tradizione, d’altronde, di enorme ricchezza: basti pensare alla presenza del cristianesimo ortodosso nell’arte, dalla musica, alla pittura e architettura, alla letteratura, quella che conosciamo meglio.

Non che l’accordo fra le varie chiese «autocefale» sia né facile né scontato. Basti dare un’occhiata alla loro mappa per intravedere le difficoltà, come sempre legate più alla politica che alla teologia.

L’elenco comprende alcuni patriarcati: sono le sedi principali, non quantitativamente ma storicamente. Sono quelli più antichi, di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme; poi i più recenti di Mosca, di Serbia, di Romania, di Bulgaria, della Georgia.

Ai patriarcati si devono poi aggiungere le chiese: di Cipro, di Grecia, di Polonia, della Cechia e Slovacchia, di Albania, della Finlandia, della Macedonia, di America. Un vero arcipelago.

Molte di queste chiese hanno aderito, anche se con convinzione relativa, al Consiglio Ecumenico della Chiese di Ginevra.

Ma sia da Roma che dalle chiese protestanti, quelle ortodosse sono divise da un certo modo di intendere il cristianesimo: lo spazio attribuito alla liturgia, la prevalenza alla vita monastica su quella sacerdotale (i monaci sono celibi, i preti sono sposati), l’attaccamento alla tradizione dei Padri dei primi secoli.

E anche il legame, sempre molto stretto, con la cultura nazionale: cultura, etica, fede religiosa. Un legame che i recenti eventi storici hanno rinsaldato, in maniera spesso così forte da non evitare i rischi di integralismo (si pensi, ad esempio, alle vicende della ex Jugoslavia).

Chiese, dunque, che potremmo considerare reazionarie? Più reazionarie, comunque, del cattolicesimo e delle chiese protestanti? È difficile giudicare, anche perché sia il cattolicesimo sia le chiese protestanti e ortodosse presentano mille volti, ben diversi da luogo a luogo.

Si aggiunga che la nostra conoscenza dell’ortodossia è, generalmente, piuttosto limitata, anche nei confronti dei fermenti culturali e teologici che vi sono presenti. Penso, per fare soltanto un esempio, alla figura di Pavel A. Florenskij e alla sua «teologia della bellezza» (si veda il bel saggio su di lui di Natalino Valentini, edizioni EDB).

Buona Pasqua, dunque, ai fratelli cristiani di oriente!