La critica militante non esiste più: non si fa che ripeterlo. Meno spesso si ricorda che in effetti non ha mai avuto vita semplice, che di stagioni di crisi ne ha attraversate tante. Nel secondo Novecento la terza pagina tradizionale, già regno dei «principi dei critici» stile Emilio Cecchi, risulta ormai esaurita: è definita da Arbasino «compiaciuta esibizione di riboboli e princisbecchi», da Andrea Barbato sede di «testi senza tempo, divagazioni e moralità»; tuttavia, ce ne vuole per liquidarla completamente. E i supplementi culturali che la soppiantano – primi fra tutti quelli del «Giorno» e di «Paese Sera» – sono certo innovativi, anticonformisti, indimenticabili, ma sempre alle prese con gli imperativi del mercato, i riguardi contingenti, il degrado delle sperimentazioni in mode: negli anni sessanta, mitici ai nostri occhi, Calvino vede l’industria culturale come una «macchina» a cui «ribellarsi è inutile»; Manganelli giudica la pratica della recensione scaduta a «rito sociale, ricco per questo di riserve mentali, di malafede, di buone intenzioni»; Pasolini osserva che gli adepti del Gruppo 63 disquisiscono di antiromanzo «come se parlassero di prosciutto di Parma».

Naturalmente adesso si va ben peggio, per i motivi già noti: la critica militante, come la critica in generale, ha risentito della crisi delle ideologie e dei metodi, ha perso ogni mandato simbolico; i problemi che la accerchiavano si sono esacerbati, lo strapotere del mercato si è fatto sempre più invasivo.

La funzione pubblicitaria riconosciuta alle recensioni (con fastidio) già dai tempi di Balzac, adesso appare vicina a divorarle, le appiattisce facilmente in trafiletti promozionali; molti scrittori attirano l’interesse grazie ad attrattive che con il loro spessore non hanno nulla a che vedere, dalla fresca giovinezza alla venerabile vecchiaia, dal passato cupo al presente intrigante; e le loro opere, sovente oscillanti tra autobiografia e autofiction, sono reclamizzate attraverso interviste, effusioni e confessioni che trasformano il giornalismo culturale in una sorta di cronaca sentimental-mondana.

Gli ottimisti pervicaci (come chi scrive) potrebbero ribattere che alcuni supplementi e siti di qualità resistono, che tra la rete e la carta stampata circolano energie vive, che il dissolvimento di indirizzi ormai asfittici può essere spinta di ripartenza, che la critica ha ancora futuro. Proprio perciò, d’altronde, preoccupano i rischi che più vistosamente la minacciano.
Ad esempio, la tentazione proliferante di abdicare alla propria indipendenza, collaborando con le testate peggiori. E il conformismo di gruppo che Arbasino definiva l’«hula-hoop intellettuale», sempre più rigido e inerte: in nome del quale, da un pezzo, si esalta ogni rigo di Camus e si liquida in blocco Sartre, si tira in ballo ossessivamente Pasolini (a volte senza rileggerlo) e si ritiene Moravia emblema di ogni male (senza rileggerlo mai), si attacca a spada tratta o si difende a piè fermo il romanzo di intreccio evitando di analizzare la difformità delle sue articolazioni, e così via.

E ancora, la refrattarietà ai confronti: la rete ha avuto il merito di rilanciare le polemiche non di rado però togliendo loro ogni mordente; il problema non sta tanto nelle derive di aggressività (in effetti tipiche dei diverbi di ogni tempo), quanto nella tendenza a mostrare i pugni senza scendere sul ring, a distruggere gli avversari non nell’interazione diretta ma nella nicchia protettiva di un proprio blog o di una propria bacheca Facebook, circondati da consensi confortanti; l’oceano aperto del web è sempre più intasato da cittadelle autistiche, in cui ognuno promuove il suo lavoro, votando alle proprie sorti incessante fiducia, e riservando viceversa a quelle complessive della critica un disperato pessimismo, condito beninteso di struggente nostalgia per le perdute età dell’oro.

E questo è il rischio peggiore. Siamo partiti da lì: riguardato da vicino l’oro di quelle età ne mostra di screpolature, le lacerazioni e le incertezze del passato tornano a galla. Il che può aiutare non a rivalutare l’attualità, ma a situarla in prospettiva meno catastrofica: a vederla, anziché come fase di declino irreversibile, come un lungo momento di transizione, di sicuro impervio, forse ancora fertile.