Una conversazione al telefono con padre Tabeth Karamlis, vescovo della diocesi di Alqosh, è sempre utile per farsi un’idea aggiornato della situazione nella piana di Ninive e nel Nord dell’Iraq. Non è passata inosservata in quelle regioni la recrudescenza delle violenze e il moltiplicarsi di attentati e assalti ad obiettivi militari e civili da parte di cellule dell’Isis, protagoniste di recente anche di alcuni sequestri di persona. Padre Tabeth prima di rispondere alle nostre domande ci tiene a riferirci la «buona notizia». Una altra ragazza ezida, liberata dall’Isis nella città siriana di Deir Ezzor, dopo un calvario durato mesi ha fatto ritorno a casa in Iraq e ha potuto abbracciare la sua famiglia. Nello scarno comunicato diffuso dalle autorità irachene non c’è, per ragioni di sicurezza, il nome della ragazza. Si sa solo che è originaria di Hardan e che due giorni fa ha incontrato i familiari a Sinjar. «Sono notizie che ci fanno sperare in un ritorno a quella normalità che purtroppo è ancora lontana. Troppi lutti, troppo dolore hanno patito le genti di queste terre, occorrerà tempo e il clima che si respira al momento certo non aiuta», ci dice Karamlis ricordandoci le stragi dell’agosto del 2014 compiute dai miliziani dell’Isis, delle 7000 e più donne ezide fatte prigioniere costrette con la forza a sposare jihadisti e spesso trasformate in schiave del sesso. Senza dimenticare le centinaia di migliaia di cristiani costretti otto anni fa ad abbandonare le loro case per sfuggire alla prigionia e anche alla morte. Il religioso cristiano però sottolinea inoltre il complesso quadro politico dell’Iraq. A distanza di mesi dalle elezioni non c’è ancora un governo a causa delle divisioni che lacerano le formazioni politiche della maggioranza sciita della popolazione.

Lo Yazidismo, la religione degli ezidi (etnicamente curdi), a causa del suo accentuato esoterismo e per la sua venerazione del Melek Ṭaus, un angelo dalle sembianze di un pavone che per altre fedi è un simbolo del male, è guardato con diffidenza, spesso con ostilità esplicita dai suoi detrattori. I sunniti più radicali, a cominciare dai jihadisti dell’Isis, considerano gli ezidi come degli «adoratori del diavolo Melek Taus», quindi degli apostati meritevoli delle punizioni più severe, anche della morte. Una sorte subita da almeno 3mila ezidi uomini nel nord dell’Iraq. La Unitad, la squadra delle Nazioni Unite che indaga sui crimini dell’Isis in Iraq, ha scoperto più di 80 fosse comuni nel Sinjar e ha riesumato salme in 19 di esse identificando sino ad oggi 104 corpi mediante campioni di Dna. Furono numerose anche le ezide uccise ma le donne fatte prigioniere in buona parte divennero schiave dagli uomini del Califfato, portate in Siria e vendute, ognuna, per poche centinaia di dollari. Di duemila di esse non si è più saputo nulla.

La giovane di Hardan tornata a casa due giorni fa era una di quelle schiave ma non è Roza Barakat, l’ezida di cui si è parlato qualche giorno fa perché intervistata dall’agenzia statunitese Ap. Roza incarna l’orrore iniziato con il rapimento nel 2014 e il destino assurdo che tante volte affrontano oggi le donne liberate o sfuggite all’Isis. Roza aveva 11 anni quando fu catturata a Sinjar nel 2014: i jihadisti in pochi giorni presero il pieno controllo di una ampia porzione del nord dell’Iraq. Portata in Siria, venduta più volte e ripetutamente violentata, oggi, a 18 anni, parla poco del suo dialetto curdo nativo, il Kurmanji. Il Califfato non esiste più. L’Isis ora è rappresentato solo da cellule armate, certo pericolose ma che sono solo un pallido ricordo dell’esercito di decine di migliaia di uomini messo in piedi dall’emiro Abu Baker al Baghdadi. Eppure, Roza ha preferito scivolare nell’ombra e non ha ancora fatto ritorno a casa. Da tempo è in un rifugio per donne ezide messo in piedi da una associazione locale. «Non so come affrontare la mia comunità», ha detto all’Ap cercando di spiegare le complicate realtà che devono affrontare diverse ragazze ezide diventate donne sotto la brutale autorità dell’Isis mentre la loro comunità è in disaccordo su come riceverle ed accettarle.

Dopo averla venduta un paio di volte, ha proseguito il suo racconto, i jihadisti le imposero una scelta: convertirsi all’Islam e sposare un combattente o essere venduta di nuovo. Scelse di sposare un libanese che riforniva di cibo e attrezzature i combattenti dell’Isis. Ad appena 13 anni, nella città di Raqqa, diede alla luce un figlio, Hoodh. All’inizio del 2019, mentre lo Stato islamico di Al Baghdadi stava crollando, Roza fuggì prima a Deir Ezzor e poi a Baghouz l’ultima roccaforte jihadista poi conquistata dalle Forze democratiche curde. A questo punto la giovane ezida avrebbe potuto farsi avanti e identificarsi invece strinse Hoodh tra le braccia e se ne andò dalla città con altre mogli di jihadisti. Arrivata infine ad Idlib, la provincia siriana che per le pressioni della Turchia e l’ipocrisia dei paesi occidentali è da anni sotto il controllo di qaedisti e jihadisti, la giovane programmava di arrivare in Turchia quando le forze di sicurezza curde l’hanno fermata e interrogata. «Ho fatto di tutto per nascondere di essere ezida», ha detto. Una volta scoperta la verità, è stata portata in un rifugio dello Yazidi Home Center, che assiste oltre 200 donne che erano nelle mani dell’Isis. Roza è indecisa, non sa cosa fare. La comunità ezida irachena impone una scelta alle donne rapite che tornano Sinjar: rinunciare ai propri figli generati con uomini di Daesh. Sarebbero 2.800 le ezide che tentano di ricostruirsi la vita altrove perché temono di essere separate dai figli. La vicenda di giovani donne come Roza Barakat è raccontata magistralmente in «Sabaya» («Prigioniere»), il documentario del regista Hogir Hirori, vincitore in questi ultimi mesi di premi e riconoscimenti in ogni parte del mondo.

La paura è perfida, cresce a poco a poco togliendoti la serenità di pari passo all’aumento del rischio. Vale per tutte comunità che popolano quel mosaico intrigante e allo stesso tempo spietato che è la società irachena, specie nelle regioni settentrionali. Il risveglio di Daesh preoccupa molto anche gli iracheni cristiani. «Ci sono stati degli attacchi a sud di Kirkuk, nell’area di Diyala ma anche a ovest, ogni tanto cadono colpi di mortaio ed esplodono bombe, è chiaro che (quelli dell’Isis) si sono riattivati», ci dice padre Tabeth Karamlis riferendo i timori nella sua comunità. Le speranze di un miglioramento della situazione politica ed economica alimentate anche dalla visita di papa Francesco lo scorso anno tra i cristiani nel nord del paese, sono già svanite. «Non è cambiato nulla da un anno a questa parte» aggiunge Karamlis «qui in Iraq non c’è la voglia di dare una soluzione ai problemi che riguardano i cristiani, sia quelli che vivono nella Piana di Ninive che in parte (45%, ndr) sono tornati a casa dopo la sconfitta dell’Isis e quelli che sono a Baghdad e in altre città. I cristiani sono iracheni e come tutti gli iracheni aspettano che si formi il governo, chiedono lavoro, servizi pubblici come l’elettricità. Problemi irrisolti che uniti alla paura spingono tanti a non tornare (a Ninive) e a cercare altrove una nuova vita».