E’ sempre più chiaro che Donald Trump è un leader populista autentico, più simile a Mussolini o Peron che a Berlusconi. La sua azione politica è dirompente: vuole creare un sistema politico plebiscitario e non riformare con aggiustamenti marginali quello esistente.

In qualunque modo si concluda la sua presidenza, Trump resterà nella storia americana come l’unico vero leader populista di successo nella storia della repubblica dal 1776 ad oggi.

Perché è un vero leader populista, assai più abile ed efficace di Marine Le Pen, Geert Wilders o Nigel Farage in Europa? Perché agisce come «voce del popolo»: si è dato come compito politico il dare espressione alle frustrazioni di una parte dell’America bianca molto più che il governare.

Tutte le sue azioni sono simboliche, dirette a una base elettorale che ha profondi impulsi xenofobi e razzisti e quindi apprezza la carica di violenza verbale contenuta nei suoi tweet e nei suoi comizi. Governare è l’ultima delle sue preoccupazioni.

Facciamo un passo indietro. In campagna elettorale Trump aveva promesso essenzialmente quattro cose: invertire l’emorragia di posti di lavoro a vantaggio di paesi come la Cina; combattere l’immigrazione, in particolare costruendo un muro al confine con il Messico; cancellare l’odiata riforma sanitaria di Obama; e «drenare la palude» della corruzione a Washington.

Ad oggi, nulla di tutto ciò è stato realizzato, anzi, neppure iniziato. Il piano di investimento di mille miliardi di dollari nelle infrastrutture (porti, strade, ponti), che avrebbe dovuto creare milioni di posti di lavoro, è rimasto nei cassetti. La Cina è rimasta il partner commerciale più importante degli Stati Uniti.

Il muro (che Trump aveva promesso di «far pagare ai messicani») è ancora nel libro dei sogni e l’unico tentativo di modificare una legge, abrogare l’odiata Obamacare, è stato bocciato dal Senato malgrado i repubblicani abbiano la maggioranza. Il bilancio legislativo dell’amministrazione Trump è zero.

Molte promesse erano palesemente assurde: il muro al confine con il Messico, per esempio, potrebbe costare fra i 25 e i 70 miliardi di dollari, una cifra gigantesca che non garantirebbe in alcun modo la sua efficacia pratica. Ora il presidente minaccia di mettere il veto alla legge di bilancio se il Congresso non ne finanzierà la costruzione ma è improbabile che deputati e senatori prendano sul serio la minaccia.

Nel sistema costituzionale americano il presidente può minacciare la guerra nucleare, bombardare paesi lontani, firmare decreti di ogni genere ma, senza l’approvazione delle camere, non può neppure acquistare la carta per le fotocopie, men che meno riformare il sistema fiscale o varare imponenti programmi di lavori pubblici.

Anche i presidenti più abili e carismatici, come Franklin Roosevelt o Lyndon Johnson, hanno storicamente faticato per tradurre in leggi il loro programma politico. Ciò significa che un presidente che irrita e provoca il Congresso si condanna all’impotenza sul piano legislativo.

Gli attacchi ad personam contro senatori repubblicani come Mitch McConnell, Jeff Flake, Lisa Murkowski ed altri sono comprensibili solo se visti come segnali ai suoi sostenitori che Trump faceva sul serio quando affermava di voler fare la guerra all’establishment.

Questo comportamento autolesionista ha due sole spiegazioni possibili: o è mentalmente instabile o è un leader populista che vuole distruggere entrambi i partiti esistenti. La stampa americana si concentra sulla prima spiegazione, a me per il momento sembra più plausibile la seconda.

Le azioni di questa settimana sono significative: ha concesso la grazia a Joe Arpaio, uno sceriffo razzista e violento che per decenni ha perseguitato gli ispanici nella sua contea in Arizona.

Arpaio era stato condannato per abuso di potere e violazioni dei diritti civili da un tribunale federale ma resta molto popolare come simbolo della lotta all’immigrazione clandestina: il perdono di Trump è quindi un gesto simbolico diretto ai suoi fedeli.

Il partito repubblicano si illudeva di aver «normalizzato» il presidente riempiendo il suo governo di banchieri di Wall Street, di generali e di tecnici provenienti dai centri studi conservatori ma questa si è rivelata un’illusione: Trump non si è dato neppure la pena di riempire tutti i posti vacanti nella burocrazia federale, preferendo affidarsi a un ristrettissimo numero di lealisti, tra i quali spicca il genero Jared Kushner.

Il fatto che abbia licenziato il più noto degli outsider fra i suoi consiglieri, Stephen Bannon, non significa affatto che i suoi istinti autoritari e distruttivi siano stati domati.

Al contrario, Trump vuole governare in contatto diretto e permanente con il «suo» popolo: quanto questo ossa durare e come possa finire è una domanda a cui oggi nessuno potrebbe rispondere.