L’anno prossimo compirà trent’anni il Fid Marseille (Festival internazionale del documentario), che nella sua «etimologia» conserva la parola documentario – anche se ormai da molto tempo la scelta editoriale del direttore Jean-Pierre Rehm è andata oltre la distinzione di «genere», lasciandosi alle spalle anche i lunghi dibattiti su spazi e modalità di fruizione delle immagini in movimento – ricordiamo sull’argomento il sempre fondamentale studio di Raymond Bellour La Querelle des dispositif, POL – e anticipando gli intrecci «expanded» che oggi appartengono a tutti i festival non solo tematici.

È cambiato il Fid, perché riposizionare una identità di ricerca sull’immaginario non è mai facile, così come non lo è confrontarsi con i continui mutamenti del mercato, con la «concorrenza» tra festival, i finanziamenti e la politica… Da qualche anno al Mucem, il Museo del Mediterraneo, e nella bella Villa Méditerranée progettata a filo d’acqua da Stefano Boeri, pur continuando a occupare la storica sala del Variétés sulla Canébiere, e piccole sale quasi «clandestine» in città (Le Miroir nel cuore dell’ ormai leziosamente gentrificato Panier), ha però continuato a mischiare in orizzontale le sue direzioni.

A cominciare dalla retrospettiva che questa edizione omaggia Isabelle Huppert (la cura di Antoine Thirion) magnifica nella sua aura quotidiana, anche se è una diva, anzi la Diva del cinema d’oltralpe, ha quella spudoratezza – da noi non esistono figure come lei – che le permette di essere libera nelle sue scelte, seguendo le proprie passioni in uno star system sempre più formattato. Per diventare Elle (titolo anche dell’omaggio), essere protagonista dei film di Chabrol e al tempo stesso entrare in un film di Tonino De Bernardi, tra i nostri registi più «undeground» (Medea Miracle), recitare per Marco Ferreri (Storia di Piera), diventare la complice più appassionata di Werner Schroeter (Malina).

Che festival è dunque questo 2018, capace di sfidare il 14 Juillet, i turisti d’estate molto numerosi – con sold out un po’ dappertutto – e la finale della Francia domenica al Mondiale? Il pubblico è buono, e così le presenze degli addetti ai lavori perché alla fine al Fid tra i curatori e programmatori del festival più di ricerca ci passano un po’ tutti grazie anche al lavoro in crescita del FidLab, la piattaforma internazionale di coproduzione, che ha festeggiato i dieci anni con 12 progetti finalisti tra cui il nuovo film di Bill Morrison The Village Detective, dal titolo di un film sovietico del 1968 ritrovato dai pescatori islandesi in mare – la bobina si era impigliata nelle reti – il cui protagonista, Mikhail Jarov, star molto popolare, diventa la guida per un racconto dell’Urss, delle sue mitologie e delle sue contraddizioni – «Sarà un film quasi speculare a Dawson City, in uno c’era l’epopea della Corsa all’oro, qui ci saranno gli anni dell’Unione sovietica tra il 1953 e il 1968» ha detto nella presentazione Morrison.

«Si può combattere contro i sentimenti?» È la domanda che ritorna nella mente di uno dei protagonisti di Les Grands Squelettes (Concorso francese) di Philippe Ramos (Captain Achab, 2007; Jeanne Captive, 2011), un film spiazzante, doloroso, che mette persino a disagio per come denuda – con pudica dolcezza – il non-detto del sentimento, la trama fitta di pensieri che attraversa come una scia le teste e la pancia di ciascuno. Ossessioni, paure, segreti che non si osa dichiarare, malesseri, solitudini: un monologo interiore quasi alla Joyce di cui l’altro, colui o colei che ne è il destinatario, non sentiranno mai il suono né le parole.

C’è un uomo (Melvil Poupaud) che è inciampato all’improvviso, alle 8 del mattino, con la «divisa» dell’ufficio – giacca, cravatta, giornale. Non sa perché, non ha ferite, piano piano sulla panchina, fermo contro la corrente frenetica di lavoro-scuola-impegni che trasporta tutti gli altri, lascia affiorare un dolore: lei, l’amata, gli ha detto che ha un altro. Inaccettabile. «Combatterò». Ma: «Si può combattere contro i sentimenti?».
Una ragazza teme di farsi scoprire nella sua gelosia morbosa, se lui lo capisce la lascerà, fuggirà via, ma come fare a trattenersi, come impedirsi di stare male? Una donna è sola nel letto d’ospedale, ha paura (meravigliosa sempre Françoise Lebrun). Le hanno detto che starà bene ma il tempo e il suo respiro sembrano essersi arrestati; vorrebbe andare a casa, immagina le sue cose, immagina il volto dell’uomo che è stato insieme a lei una vita intera. Lo pensa sorridere anche quando non ci sarà più: a chi? Quanto può essere inaccettabile che la vita continui senza di lei?

Le voci (storie) si susseguono in una giornata parigina, ventiquattro ore di cui ogni persona è un capitolo, che compone un discorso amoroso, che ci parla della relazione con l’altro, chi si ama, e con noi stessi. Che disegnano, in uno spazio immaginario (e immaginato) linee precarie, incerte riflettendo quel senso di malessere che attraversa molti dei film visti questi giorni, in sintonia con il presente e al tempo stesso cercando un’espressione che ne traduca, lontano dall’ enfasi (troppo spesso strumentale) le tensioni.

Les Grands Squelettes non è né fiction né documentario, Ramos inventa con radicalità un cinema aperto la cui messinscena filma ciò che sembra impossibile filmare, il sentimento nelle sue zone buie, e coinvolge ciascuno di noi spettatori, interroga le nostre fragilità e emozioni, tocca il profondo di un sentire comune. Senza il filtro del dialogo, e col suono appena accennato di un soffio di vento, o di un respiro impercettibile, mette al centro il corpo dell’attore e la sua voce, – tra gli altri protagonisti Jacques Nolot, Alice de Lencquessaing, Denis Lavant, Jean-Françoise Stevenin… – la narrazione di un desiderio e la trama della vita.