Sul caso Regeni l’Egitto procede come un gambero, un passo avanti e due indietro. Mercoledì gli inquirenti egiziani hanno consegnato i tabulati telefonici di 13 cittadini considerati di interesse investigativo per la Procura di Roma (improvvisamente i presunti lacci costituzionali a difesa della privacy si sono eclissati).

Ieri l’Agenzia Nova citava una fonte della sicurezza secondo la quale tra le trascrizioni ce ne sarebbero due in cui viene fatto il nome di Giulio: una telefonata registrata nel quartieri di Dokki, dove Regeni viveva, e una nela strada alla periferia del Cairo dove il suo corpo è stato ritrovato.

Poco prima, però, il ministro degli Esteri Shoukry rifilava un’altra stoccata al governo italiano: «Ho seguito con preoccupazione le dichiarazioni fatte dal ministro degli Esteri italiano, in più di un sito web e in più di un’occasione nell’ultimo periodo – ha detto all’agenzia di Stato Mena – Sono preoccupato perché [i commenti] non riflettono gli interessi comuni dei due paesi o il valore della cooperazione offerta dall’Egitto, ma sono l’espressione dell’interesse di una sola parte. Continueremo ad informare la parte italiana degli sviluppi in trasparenza e credibilità».

Le ultime uscite del ministro Gentiloni risalgono al 29 aprile: «Se qualcuno immaginava che il trascorrere del tempo avrebbe diminuito l’attenzione dell’Italia, per noi il ritorno alla normalità delle relazioni [riferimento al richiamo dell’ambasciatore dal Cairo, ndr] dipende solo da una collaborazione seria», aveva detto ai microfono di Radio 1 la scorsa settimana definendo quella egiziana «una collaborazione inadeguata» e insoddisfacente. Dopo il rientro dell’ambasciatore Massari in Italia, però, non sono seguite le misure immediate e proporzionali promesse e il caso Regeni resta in un pericoloso limbo diplomatico.

Il limbo, in Egitto, dovrebbe essere anche mediatico visto l’ordine di censura che Il Cairo ha tentato di imporre sul caso di Giulio. Ma in corso c’è un braccio di ferro destinato a dare mal di pancia ai vertici governativi. Dopo la decisione presa in assemblea mercoledì, ieri i primi effetti delle “rappresaglie” giornalistiche contro il ministro degli Interni Ghaffar sono comparse su quotidiani e agenzie web.

Sui giornali, da al-Bawaba a al-Shorouq, in prima pagina, sono comparsi banner neri e segnali di divieto: «No alla censura», «Il giornalismo non è un crimine». Ma soprattutto ci si fa beffe del ministro di cui i giornalisti hanno chiesto le dimissioni: se molti non ne riportano esplicitamente il nome, altri – gli indipendenti Mada Masr e Al-Maqal, ma anche il governativo al-Ahram che dichiara piena adesione alle decisioni assunte in assemblea – ne hanno pubblicato la foto “in negativo”, con i colori all’inverso. Perché, spiegano, si tratta di «ministro negativo», colpevole di portare avanti una politica repressiva nei confronti di qualsiasi voce critica.

Il punto di rottura si è toccato domenica 1° maggio quando il Ministero ha mandato la polizia a compiere un raid senza precedenti nella sede del sindacato, arrestando due giornalisti di January Gate, Mahmoud El Sakka e Amr Badr. I due sono tuttora detenuti, insieme a 20 reporter dietro le sbarre con accuse diverse, diffusione di notizie false o incitamento al golpe.

Ieri il sindacato della stampa ha annunciato una nuova riunione il prossimo mercoledì, ad una settimana dalla precedente nella quale i giornalisti hanno dato 7 giorni di tempo al governo per presentare scuse ufficiali e mettere sul piatto la testa di Ghaffar. Se le richieste non saranno accolte, inizierà lo sciopero.

Dal Cairo nessun commento: il presidente al-Sisi rimane in silenzio. Parla invece il National Council for Human Rights, organizzazione ufficialmente indipendente ma legata al governo che ne sceglie i membri: il consiglio ha condannato «le violazioni contro le libertà della stampa e le censure ai media». Solidarietà anche dalla Tunisia: il sindacato della stampa esprime «assoluto e incondizionato sostegno» ai colleghi egiziani. Un atto apparentemente scontato ma che riaccende i riflettori sulle lotte comuni nordafricane, primavere arabe che non si sono ancora chiuse né espresse nel loro pieno potenziale.