Le voci e i termini con cui si pone un dibattito ne orientano l’andamento mettendone in luce certi aspetti e oscurandone altri. C’è chi chiama questa operazione framing o in francese cadrage: in italiano potremmo dire cornice interpretativa e non è questione di filologia ma un nodo politico che riguarda la costruzione del senso comune, che non è neutro bensì frutto di precisi rapporti materiali e posizionamenti sociali.
La rivolta globale antirazzista di queste settimane (e la genealogia teorico-politica da cui discende) ci invita a una rimessa in discussione dei refrain, delle figure intoccabili, dei simboli e dei monumenti attorno a cui il senso comune si è consolidato.
Sul modo in cui le proteste hanno preso di mira anche in Italia monumenti e toponomastica chiamando in causa l’intreccio tra razzismo, colonialismo e sessismo nella costruzione dello spazio e del dibattito pubblico, abbiamo dialogato con Liliana Ellena, storica postcoloniale che ha curato la più recente edizione de I dannati della terra di Frantz Fanon (Einaudi, 2007), si è occupata di colonialismo e fascismo da una prospettiva femminista e ha studiato i movimenti delle donne in ottica transnazionale.

Come si possono interpretare le azioni antirazziste contro statue e monumenti?
È utile ricordare che i monumenti sono luoghi di scrittura e riscrittura della storia nello spazio pubblico. Se pensiamo alla statua di Cecil Rodhes rimossa dal campus di Pretoria a seguito della mobilitazione Rodhes Must Fall, è evidente come certi monumenti non sono tracce della storia ma della cancellazione della storia, per esempio del dominio coloniale.
La rabbia che scatenano è del tutto legittima. Nel caso della statua a Montanelli, il punto è la decisione del sindaco Albertini di erigergli un monumento a Milano che arriva solo qualche anno dopo un articolo del 2000 in cui Montanelli usò ancora parole atroci per descrivere l’incontro sessuale con la donna in Etiopia.

Il dibattito sulle memorie scomode del nostro passato non è nuovo.
Un paio di anni fa Ruth Ben-Ghiat aveva posto la questione del rapporto tra architettura fascista e imperialismo a proposito del Palazzo dell’Eur, suscitando reazioni scomposte. Ancora più difficile porre la questione delle tracce del passato coloniale non solo fascista ma ottocentesco. A Torino ce ne sono di molto visibili, dai tombini di corso Belgio che un’incisione in arabo attribuisce al Comune di Tripoli, fino all’area nella zona Lingotto che veniva chiamata «il campo libico» perché durante la prima guerra mondiale ospitava la «manodopera coloniale» impiegata dalla Fiat.
A Roma c’è l’aspetto monumentale messo in luce, per esempio, da Igiaba Scego e Rino Bianchi in Roma negata (Ediesse 2014), ma penso anche al «quartiere africano» nato tra il 1920 e il 1922 da un’operazione toponomastica mirata a celebrare le conquiste coloniali. Il quartiere è compreso tra viali e corsi che hanno i nomi delle colonie italiane: Eritrea, Libia, Somalia, Etiopia e le cui vie seguendo l’espansione del quartiere hanno continuato per ‘omogeneità’ a essere nominate secondo lo stesso criterio almeno fino all’inizio degli anni ‘60. C’è un bellissimo corto, L’Africa in casa di Giovanni Vento (1968), che inizia proprio dal nome delle vie del quartiere africano. Ci sono esperienze a cavallo tra attivismo e pratiche artistiche che mettono in luce le tracce dei nostri crimini coloniali, penso al collettivo Resistenze in Cirenaica a Bologna e alle varie azioni di guerriglia odonomastica che con adesivi sulle targhe di certe vie ricordano che sono intitolate a criminali e colonizzatori. Quel che manca è una consapevolezza diffusa delle tracce di quella storia nel corpo delle nostre città.

Cosa ci dice la levata di scudi in difesa di Montanelli?
Trovo che la personalizzazione del dibattito non tenga conto di che cosa sta dietro ai percorsi biografici individuali. Pensare che anni dopo essere stata venduta, quella donna bilena avesse chiamato suo figlio Indro come riconoscimento del carattere consensuale della loro relazione non tiene conto della disparità nei rapporti di potere in quel contesto. E sono proprio queste che andrebbero analizzate. Il punto è iniziare a individuare delle parole per dire la violenza coloniale e discutere di come in Italia abbia assunto specifiche connotazioni di genere. Il colonialismo è stato un rapporto materiale di sopraffazione che ha segnato le vite e i corpi delle persone. Lo stupro è solo la punta dell’iceberg di una serie di rapporti di dominio che hanno trasformato le donne in forza di lavoro sessuale e domestica, che hanno impedito l’accesso alla cittadinanza a coloro che sono nati da queste relazioni, hanno impedito agli ex soggetti colonizzati di rivendicare i loro diritti in una storia in cui sono stati chiamati in causa contro la loro volontà.

Perché il colonialismo italiano sembra restare una pagina sconosciuta della nostra storia?
Quel che stupisce è che ci sono studiose italiane poco interpellate che da decenni si occupano di questi temi, per esempio Giulia Barrera, Barbara Sorgoni, Gaia Giuliani, Vincenza Perilli, oltre alle afrodiscendenti che hanno dato forma con le loro narrazioni ad un archivio vivente e incarnato. Penso ai romanzi di Gabriella Ghermandi, Igiaba Scego, Maria Viarengo. E non è un caso che in Italia questa letteratura postcoloniale in riferimento al Corno d’Africa sia stata scritta dalle donne perché è il segno di una violenza specifica. Dobbiamo fare i conti con la «vita psichica del potere», che ha una strada autonoma fatta di autodenigrazione, complicità, ambivalenze e non solo di eroismo e resistenza. Dovremmo mettere le mani in questa materia sporca, fare i conti con le rovine del colonialismo che hanno condizionato le soggettività come racconta bene Scego nel romanzo Adua mettendo in luce come quella violenza abbia segnato e occupato anche le relazioni più intime e personali. Dovremmo iniziare a stare nel problema, ad abitarlo, invece di arroccarci su posizioni autoassolutorie inaccettabili.

Che cosa l’ha spinta a studiare l’intreccio sessismo-razzismo nella storia italiana?
Il tentativo di smontare la narrazione che ferma la questione del colonialismo al ’45. Il colonialismo ha imposto una relazionalità violenta continuata durante tutto il dopoguerra. Volevo rendere conto dell’intreccio tra fascismo, governo del corpo delle donne e colonialismo in una genealogia che ora iniziamo a vedere anche grazie al femminismo. Penso alla figura dell’italo-eritrea Elvira Banotti, contestatrice di Montanelli, tra le fondatrici di Rivolta Femminile che non a caso nel ’67 ha iniziato a mettere insieme la prima documentazione sull’aborto clandestino. Lo sottolineo perché è un esempio lampante di una presenza evidente e invisibile allo stesso tempo: un personaggio controverso – interessante la sua autobiografia Una ragazza speciale (L’Ortica, 2011) – che ci permette di vedere come i principali mutamenti giuridici innescati dal femminismo (interruzione di gravidanza, violenza sessuale, diritto di famiglia) smontano una legislazione nata dentro la cornice dell’impero, una costruzione razzializzata dei corpi delle donne bianche al servizio della nazione imperiale. Mentre le leggi razziali sono state abrogate nel primo dopoguerra, la legislazione demografica nata dall’esperienza dell’impero è rimasta intatta fino agli anni ’70. Nel mio lavoro è stato importante far emergere dentro la storia del femminismo dei nodi che mettessero in discussione questo vuoto del lungo dopoguerra, che contribuisce a riprodurre il razzismo contemporaneo e l’invisibilità di queste soggettività.

Blm ha innescato proteste che si radicano nel contesto di ciascun paese…
Le recenti manifestazioni antirazziste accanto alla solidarietà con il movimento Usa sono il lungo di una presa di parola potente che ci riguarda direttamente qui e ora. Le rivendicazioni delle seconde, terze e quarte generazioni di italiani non bianchi è un’articolazione plurale e complessa che accanto agli afrodiscendenti, include le comunità latinoamericane, i rom, gli arabi. Questo chiama in causa e trasforma anche il mio posizionamento come femminista bianca. È un momento molto importante.

*

SCHEDA. Brevi cenni bibliografici

Tra i contributi di Liliana Ellena (oltre alla edizione de «I dannati della terra» di Fanon): «Spazi e frontiere della storia dei movimenti delle donne», in «Quaderno di Storia Contemporanea» (40, 2006); «White Women Listen! La linea del genere negli studi postcoloniali», in «Gli studi postcoloniali: un’introduzione» (2010); è co-curatrice con Alexander Geppert e Luisa Passerini del volume «New Dangerous Liasons. Discourses on Europe and Love in the Last Century» (2010). Con Elena Petricola ha curato «Donne di mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi» («Zapruder», 13, 2007). Collabora con il Cirsde.