Comincia oggi il quattordicesimo viaggio internazionale di papa Francesco, destinazione Armenia, il «primo Paese cristiano», come recita il logo scelto della Santa sede per enfatizzare la decisione del re Tiridate III, convertito e battezzato da Gregorio Illuminatore, di adottare nel 301 il cristianesimo come religione di Stato.
«La vostra storia e le vicende del vostro amato popolo suscitano in me ammirazione e dolore, perché avete trovato la forza di rialzarvi sempre, anche da sofferenze che sono tra le più terribili che l’umanità ricordi», ha detto il papa in un videomessaggio diffuso alla vigilia della partenza. «Desidero venire tra voi per sostenere ogni sforzo sulla via della pace e condividere i nostri passi sul sentiero della riconciliazione». Parole che sintetizzano i contenuti di un viaggio breve – dal 24 al 26 giugno – ma importante per i significati religiosi, ecumenici e geopolitici che riveste, prima tappa di un itinerario che proseguirà a settembre quando Francesco visiterà altri due Paesi del Caucaso, Georgia e Azerbaigian, quest’ultimo in conflitto proprio con l’Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh.

La maggioranza dei quasi tre milioni di abitanti fa riferimento alla Chiesa apostolica armena (i cattolici sono meno del 10%, circa 280mila), una delle Chiese ortodosse orientali, che accolse i primi tre Concili ecumenici della cristianità ma rifiutò il quarto, quello di Calcedonia del 451, aderendo al “miafisismo”, dottrina secondo cui Gesù ha una sola natura, nata dall’unione delle nature divina ed umana. Per sottolineare il carattere ecumenico del viaggio, Francesco sarà accompagnato dal card. Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, e alloggerà non nel palazzo vescovile o nella nunziatura, ma nella residenza del catholicos Karenin II, il capo della Chiesa apostolica armena.

Domani l’appuntamento più atteso, quando il papa visiterà il Tzitzernakaberd memorial complex – incontrando anche alcuni discendenti dei perseguitati –, il memoriale delle vittime del Metz Yeghérn («Grande Male»), il genocidio degli armeni compiuto dagli ottomani fra il 1915 e il ’18 che provocò quasi un 1,5 milioni di vittime, morte di fame, stenti e malattie durante la deportazione nel deserto siriano e uccise dall’esercito regolare, dai gruppi paramilitari facenti capo all’Organizzazione speciale e dalle violenze delle popolazioni, soprattutto curde e circasse.

Già un anno fa, durante il centenario del Metz Yeghérn celebrato in Vaticano, papa Francesco condannò il massacro degli armeni, chiamandolo «il primo genocidio del XX secolo», utilizzando cioè lo stesso termine («genocidio», respinto dai turchi) presente nella Dichiarazione comune di Giovanni Paolo II e di Karekin II sottoscritta durante il viaggio in Armenia di papa Wojtyla nel 2001. Ankara protestò duramente, così come ha protestato tre settimane fa, dopo l’approvazione, da parte del Bundestag tedesco, di una risoluzione che ha riconosciuto il «genocidio» degli armeni.

Il giudizio della Santa sede è quindi chiaro, ma chissà se Francesco parlerà di nuovo di «genocidio» o preferirà dribblare le polemiche. Probabilmente non ci sarà la firma di una Dichiarazione congiunta, inizialmente prevista, con Karenin II. Padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, ha fatto capire che non è stato trovato un accordo sul testo e ha aggiunto: «La parola Metz Yeghérn è anche più forte di genocidio. Nessuno di noi nega che ci siano stati massacri orribili, lo sappiamo bene, andiamo al memoriale per ricordarlo, ma non vogliamo essere intrappolati in discussioni politico-sociologiche».

Domenica, dopo alcuni incontri ecumenici ed una messa pubblica a Gymuri, seconda città del Paese, il papa si recherà nel monastero di Khor Virap – dove, secondo la tradizione fu imprigionato Gregorio Illuminatore –, a pochi chilometri dalla frontiera con la Turchia. Si ipotizzava che Francesco volesse raggiungere il confine, attualmente chiuso, ma probabilmente si limiterà a liberare delle colombe verso il monte Ararat, dove, secondo la tradizione, si incagliò l’Arca di Noè dopo il diluvio universale. Lanciando così, spiega Padre Lombardi, «un messaggio significativo».