I colpi di artiglieria pesante che ieri mattina risuonavano al confine tra l’Amhara e il Tigray, nel nord dell’Etiopia, hanno fatto eco alle dichiarazioni rese in tv la sera prima dal primo ministro etiope Abiy Ahmed, secondo il quale l’operazione militare avviata mercoledì contro le forze del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), in risposta all’attacco contro una base dell’esercito federale a Dalsash che ha provocato «molti martiri, feriti e danni», sta avendo «successo». Quindi prosegue e anzi è destinata ad estendersi, ha detto il premier, a dispetto dei timori diffusi che l’escalation possa presentare un conto pesante di vittime, oltre che un’imprevista ondata di profughi. «La linea rossa è stata superata» ha detto Ahmed, senza aggiungere dettagli sui combattimenti in corso e riservandosi di fornire tutte le informazioni una volta che l’operazione sarà conclusa.

IL GOVERNATORE DEL TIGRAY Debretsion Gebremichael, che ieri ha dichiarato lo «stato di guerra», denuncia viceversa l’«aggressione congiunta» dell’esercito federale e delle forze speciali della confinante regione Amhara. Ma al tempo stesso ostenta una bellicosa sicurezza: «La popolazione tigrina non dovrebbe essere attaccata nel Tigray. Ora siamo bene armati, forse meglio di loro».
Gli scontri hanno coinvolto anche la capitale tigrina, Mekelle, alla cui periferia si trova in effetti la sede del Comando nord dell’esercito federale, con il deposito d’armi meglio fornito della regione. Ieri le forze speciali locali mantenevano il controllo della struttura.

Fin qui gli sviluppi drammatici e in evoluzione di una crisi che ha origini lontane e cause scatenanti più recenti. Lo strappo dello scorso settembre, quando in Tigray si sono svolte le elezioni regionali a dispetto della decisione presa dal governo centrale di Addis Abeba di rimandare il voto per l’emergenza Covid, ha segnato un punto di non ritorno.

[do action=”citazione”]E così Ahmed, cui è stato assegnato lo scorso anno il Nobel per la pace grazie al modo brillante con cui ha chiuso l’annoso conflitto con l’Eritrea, non ha esitato a indossare la mimetica per regolare i conti con il Tplf. Ovvero per «difendere la sovranità nazionale e la pace».[/do]

In questo il premier etiope ha l’appoggio degli altri stati della federazione: a cominciare dalla “sua” Oromia, il cui presidente, Shemelis Abdissa, nell’esprimere pieno sostegno alla risposta militare del premier è tornato ad accusare il Tplf di armare le frange più estreme del Fronte di liberazione oromo (Olf), rilanciando la teoria di un’alleanza tra forze storicamente nemiche al fine di destabilizzare il paese, alimentare gli scontri interetnici e bloccare la spinta riformatrice di Ahmed. Denuncia che ha ripreso vigore dopo i sanguinosi scontri seguiti all’omicidio, nel giugno scorso, del celebre cantante oromo Hachalu Hundessa.

LA PRESSIONE INTERNAZIONALE più energica per ora arriva dal Dipartimento di stato Usa: in pieno pandemonio elettorale Mike Pompeo ha trovato il tempo di esprimere tristezza per le vittime e invocare una tregua. Addis Abeba resta un alleato strategico di Washington sullo scacchiere africano. Ma la recente uscita di Trump sulla Diga della Rinascita etiope – è di ieri l’ennesimo fallimento delle trattative in corso sulla mega infrastruttura che dovrebbe risolvere i problemi energetici dell’Etiopa ma è vista dall’Egitto come una minaccia alla sua produzione agricola -, l’idea della Casa bianca secondo cui al Sisi potrebbe perdere la pazienza e bombardare la diga sul Nilo Azzurro, hanno raffreddato parecchio i rapporti. Anche per questo Ahmed tira dritto.