Immaginate di dover copiare miliardi e miliardi di volte una sequenza di 3 miliardi di lettere. Ogni giorno. Anche il sistema più preciso per farlo ogni tanto introdurrebbe qualche errore casuale. Se poi ogni giorno qualcuno venisse pure a cambiarvi a caso decine di quelle lettere, è chiaro che dopo poche settimane o pochi mesi buona parte dell’informazione originaria andrebbe perduta.

La storia del Dna, la sequenza di aminoacidi che è alla base della vita, è un po’ questa. E siccome la vita sulla terra invece resiste da qualche miliardo di anni, deve esistere un modo per correggere gli inevitabili errori. Più o meno è questo il ragionamento alla base delle ricerche riconosciute ieri dal premio Nobel per la chimica, assegnato allo svedese Tomas Lindahl, allo statunitense Paul Modrich e ad Aziz Sancar, il primo turco a ricevere questo premio.
La storia inizia negli anni Sessanta, quando il biochimico Lindahl cominciò a lavorare sul Dna, che allora era ritenuto una molecola molto stabile, e si rese conto che invece poteva facilmente decadere. Dovevano quindi esistere meccanismi di riparazione: enzimi speciali che fossero in grado di individuare le alterazioni dell’informazione genetica ed eliminarle. La ricerca durò fino agli anni Novanta, e Lindahl fu in grado di spiegare un meccanismo attraverso il quale alcuni enzimi tagliano la base del Dna danneggiata e la sostituiscono.

Ma l’errore, come si diceva nella metafora all’inizio, lo possono indurre anche fattori esterni: per esempio i raggi ultravioletti o il fumo di sigaretta. Per questo tipo di danno genetico, interviene un altro meccanismo di riparazione, che è quello studiato da Sancar, affascinato negli anni Settanta dal curioso meccanismo per cui batteri esposti a dosi letali di raggi ultravioletti si riprendevano se esposti a luce blu. In questo caso, a essere sostituita è un’intera sequenza di 12 nucleotidi – i mattoncini che formano le sequenze di Dna. Lo stesso meccanismo, come scoprì il biochimico turco, funziona per anche per gli esseri umani. Sancar all’inizio ebbe molte difficoltà per convincere i colleghi sull’importanza del suo lavoro: dopo il dottorato all’università di Dallas, in Texas, fu costretto a scegliere la posizione di tecnico di laboratorio a Yale per poter continuare a fare ricerca. E fu come tecnico che pubblicò i primi risultati nel 1983.

Finalmente, Modrich, spinto a «studiare ‘sta roba del Dna», come gli disse il suo professore di biologia nel 1963, descrisse il funzionamento di altri due enzimi chiave per la riparazione del Dna e negli anni Ottanta fu in grado di costruire virus pieni di «errori artificiali» che venivano riparati dai batteri. Cosa che permise di capire e finalmente identificare il meccanismo che ne permetteva la riparazione genetica.

I tre diversi meccanismi descritti dai premiati di ieri sono quelli, fra l’altro, che minimizzando il numero di errori, permettono alle cellule di sopravvivere e di non diventare cancerose in condizioni normali.

Se non ci viene il cancro ogni volta che prendiamo il sole, respiriamo lo smog di un’automobile o il fumo di una sigaretta lo dobbiamo anche al meccanismo che hanno scoperto i premiati di ieri.