Occorrono troppe vite per farne una, disse un grande poeta del secolo scorso: potrebbe essere questa l’insegna, ma anche la dichiarazione di poetica straziata e mai rinnegata, che sovraintende all’opera di Patrick Modiano, uno scrittore (si farebbe fatica a definirlo romanziere, tout court  che ha fatto coincidere l’insieme della sua opera con la costruzione e, per certi versi, con la forzata invenzione della propria biografia. E infatti nel suo libro più dichiaratamente personale, Pedigree (2005), si è scusato in via preventiva con i lettori per non doversi riconoscere alla fine come un cane bastardo e cioè senza un vero nome; ma forse quel che chiedeva loro è una complicità che riscattasse il fatto, da lui stesso ammesso, di avere citato nel testo troppi nomi, con pignoleria e accanimento.

Destini rivelati

Il cruccio, un’ombra e insieme un vuoto di documenti e di testimonianze, formano per lui l’assenza da cui paradossalmente si squaderna, dolente e sinistro, il destino di qualunque individuo, il suo prima di ogni altro. Nato nei sobborghi di Parigi nell’estate del ’45, circa un anno dopo la liberazione della città dal giogo nazista, la sua infanzia conobbe appena il sole del dopoguerra (di cui J’ecris ton nom, Liberté, il verso celeberrimo di Paul Eluard sarebbe stato a lungo l’emblema) e subì una condizione di costitutiva e presto consapevole orfanità: il padre era un ebreo di origini italiane (vittima dei nazisti ma ambiguamente sottrattosi alla deportazione), sua madre era una attrice belga, donna fatua, sfuggente, comunque assente. Per ulteriore paradosso, sarebbero stati entrambi i numi tutelari della bibliografia del figlio abbandonato, una bibliografia fitta e impervia, che ha il suo punto d’onore, e la massima posta, nella ricerca di una origine, di un punto fermo che la scampi al presente, ora per allora, dalla centrifuga di un vuoto che rimanda di continuo a sé stesso: è la deriva di un destino che ancora non sa, per assenza dei mandatari come dei destinatari, di essere tale.

Un esordio precoce

Di tale paria innominato (mentre si annunciano il ’68 e una vicenda di ribellione antiedipica che non può toccare più di tanto lo spiantato Patrick) il mentore è il suo ex professore di geometria al Liceo Henri IV, Raymond Queneau, mago buono di tutti i Patafisici e già insigne sperimentatore di tutti i possibili linguistici e stilistici. Questo spiega la precocità dell’esordio di Modiano ma chiarisce, altrettanto, la natura figurata e anzi mascherata (qualcuno direbbe ora da docufiction e nel frattempo da pastiche postmodernista) del suo stesso esordio La Place de l’Etoile, purtroppo mai tradotto in italiano, che mescola verità storica e pura verosimiglianza fissando lo spazio e il tempo, la Parigi della Occupazione e del collaborazionismo, di un prosieguo che per lui sarà infatti inderogabile. Qui Modiano, nei modi di un romanzo di formazione predatato, associa figure del tutto inventate agli spettri familiari, la cui incombenza non è ancora dichiarata, e specialmente alla lezione di scrittori verso cui avrebbe nutrito una costante ambivalenza fatta di attrazione e repulsione: gli scherani e delatori di Je suis partout ma anche, non meno colpevoli e immondi, i Brasillach, i Rebatet e i Céline.
Seguono al primo romanzonon pochi addendi (fra cuiVilla Triste, del ’75, Via delle Botteghe Oscure del ’78) mentre parallela scorre la sua attività di sceneggiatore cinematografico che culmina nel film di Louis Malle, Cognome e nome: Lacombe Lucien, del 1974, scambiato da alcuni per un omaggio al nascente revisionismo storico, mentre getta una luce necessaria e imprevista sul periodo più tetro e fino a quel momento rimosso, il regime di Vichy, della Francia repubblicana.

Dopo l’addio a Queneau

Ma si potrebbe dire che Modiano diventa sul serio Modiano soltanto nel decennio successivo quando, rigettata l’obbedienza all’inventiva ludica e sempre travisata del maestro Queneau, va diritto verso la realtà (beninteso la sua realtà di orfano, deprivato di nome e destino) per il tramite di documenti e tracce residue in cui si dà il compito di decifrare e orientare il lettore dopo avere scampato quelle carte all’oblìo o alla noia sbadata dei posteri. Per questo i libri più esatti e più suoi (come fossero partiture meno impegnative ma gemelle del quasi coetaneo Winfried G. Sebald) sono quelli meno ambiziosi, vale a dire fredde ricomposizioni di indizi e di tracce biografiche, censimenti di esistenze anonime e inghiottite dalla storia, riascolto di voci ammutolite.
In questo caso, che torni all’autobiografia o si volga agli archivi del secolo importa relativamente meno, perché il suo compito è uno solo e cioè rinvenire il percorso che fra il ’40 e il ’44 ha potuto inabissare migliaia e migliaia di individui da Parigi-Drancy ad Auschwitz. È quanto accade nel suo libro più semplice e compiuto, Dora Bruder (Guanda 2004), e in quanti per antefatto o per prosieguo gli si aggregano in forma di costellazione – fra gli altri Sconosciute (2004), Bijou (2005) e Nel caffè della giovinezza perduta (2010), tutti tradotti da Einaudi, dove ha trovato una interprete davvero consanguinea, Irene Babboni.

È probabile che la fedeltà a una ispirazione che gli si presentò una volta per sempre, l’ossessiva rimoduluzione di un tema atavico, da ultimo persino la ripetitività e una certa dispersività, siano la forza e il limite iscritto ab origine nella sua opera, però è evidente che lo scrittore francese non sa inventare nulla né gli andrebbe di parlare d’altro se non della tenebra da cui, col suo nome e cognome, è uscito casualmente illeso e, in quanto autore, letteralmente redivivo.

In Italia non ha avuto molti lettori e, in genere, non così entusiasti: a loro andrebbe ricordato che anche se Patrick Modiano si fosse limitato a mostrare come l’«identità» (oggi per i più oggetto di bestemmie) sia una parola impronunciabile, gravida di buio e di strage, avrebbe già assolto il suo compito di uomo e di scrittore.