Talmente forte è risuonato in Brasile il grido «Ele não! Ele nunca!», «Lui no! lui mai!», da oltrepassare le frontiere del paese per riecheggiare un po’ in tutto il pianeta. Lui è Jair Bolsonaro, il candidato di estrema destra che le donne brasiliane si rifiutano persino di nominare, chiamandolo, in maniera massimamente spregiativa, coso».

E contro di lui e tutto ciò che rappresenta – in termini di svalutazione della figura femminile, di diffusione di messaggi razzisti e omofobi, di attacchi alla democrazia – sono previste oggi manifestazioni in tutto il Brasile e in più di 90 città di tutti i continenti.

L’iniziativa è partita dal gruppo di Facebook Donne unite contro Bolsonaro che in poco tempo è cresciuto in maniera esponenziale fino a oltrepassare i tre milioni di partecipanti e compiere oggi il salto decisivo dai social alle piazze del Brasile: São Paulo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte, Porto Alegre e in un’altra quarantina di municipi in tutto il paese.

E da lì, come un’onda, l’iniziativa si è propagata in Argentina, Uruguay, Stati uniti, Canada, Sudafrica, Giappone, Nuova Zelanda e in quasi tutta Europa (dalla Germania alla Francia, dall’Inghilterra all’Olanda, dalla Spagna al Portogallo), sempre più minacciata dall’ascesa dell’estrema destra.

Ha risposto all’appello anche l’Italia dove, per iniziativa del Comitato italiano Lula Libero, del collettivo Garibaldi, del gruppo «Marielle Franco presente!», di movimenti Lgbt e di altri gruppi e associazioni, si svolgeranno oggi manifestazioni a Roma, in Piazza della Bocca della Verità (dalle 16.30 alle 19), «contro l’ascesa dell’estrema destra in Brasile e in qualsiasi parte del mondo», alla stessa ora a Milano, in Largo Cairoli, per dire no alla possibilità che il Brasile «sia governato da un altro Trump o Salvini», e a Bologna, in Piazza del Nettuno, «per il diritto delle donne, per l’uguaglianza di genere, per il diritto alla vita dei giovani neri e delle giovani nere, per la pace».

Ed è così che Jair Bolsonaro si è trasformato in una sorta di anti-bandiera globale, il simbolo del virus – sempre latente – del fascismo che rischia di dilagare in tutto il pianeta, il volto su cui è possibile rintracciare i tratti di Trump, Orbán, Salvini e compagnia bella, dall’olandese Geert Wilders all’austriaco Heinz-Christian Strache, dal polacco Jarosław Kaczynski allo svedese Jimmie Akesson.

Una minaccia che, nel Brasile post-golpe, è diventata talmente grave da trasformare le elezioni del 7 ottobre in una vera battaglia campale tra democrazia e barbarie. Una battaglia in cui le donne, unendosi al di là della legittima diversità di posizioni politico-ideologiche, hanno assunto il comando delle operazioni spingendo all’angolo il «coso», per la prima volta in calo – seppur lieve – nelle intenzioni di voto.

Ma che l’ex ufficiale dei paracadutisti abbia tutte le ragioni per preoccuparsi lo indica soprattutto il suo indice di disapprovazione, salito al 44%, contro appena il 27% di quello registrato da Fernando Haddad: non a caso, se le elezioni si tenessero oggi, il «candidato di Lula» vincerebbe il ballottaggio del 28 ottobre con il 43% dei voti, contro il 37% del candidato di estrema destra.

Né deve sembrare un buon segno a Bolsonaro il fatto che l’hashtag #EleNão sia stato utilizzato persino nella campagna del candidato socialdemocratico e filo-golpista Geraldo Alckmin, in un disperato tentativo di strappargli voti.

Ma per l’ex ufficiale, ancora in ospedale dopo la coltellata ricevuta lo scorso 6 settembre, i problemi arrivano persino dal suo schieramento: dopo l’attacco choc al pagamento delle tredicesime da parte del suo vice, il generale di riserva Antônio Mourão, Bolsonaro non solo ha dovuto smentirlo, parlando di «un’offesa a chi lavora», ma ha proceduto a cancellare ogni suo evento pubblico fino al 7 ottobre.

Ma non gli sarà facile far tacere il generale, secondo cui – per citare le sue dichiarazioni più agghiaccianti–- il Brasile avrebbe ereditato l’«indolenza» degli indigeni e la «furfanteria» degli africani e i nuclei familiari composti solo da madri e nonne sarebbero nient’altro che «fabbriche di disadattati».