C’è chi ha dato vita a un proprio partito, chi si è fatto ammaliare dalle sirene di fazioni legate a noti leader iracheni che hanno lavorato per accaparrarsi qualche prominente attivista della piazza. E c’è chi, la maggioranza, oggi non andrà alle urne.

La Rivoluzione d’Ottobre, il movimento popolare nato nell’autunno 2019 contro corruzione, settarismo e diseguaglianze sociali, arriva alle elezioni diviso.

La gran parte di chi ha reso vive le autogestioni nei presidi permanenti di piazza Tahrir, a Baghdad, e nelle città del sud sciita coinvolte nelle mobilitazioni, boicotterà il voto. La speranza di un futuro migliore non la intravedono nelle urne, ingranaggi di un sistema politico e istituzionale che non ha mai messo in discussione se stesso.

«Non cambierà nulla – ci dice Y., parte del presidio di Tahrir – Sono gli stessi politici di sempre a candidarsi o politici corrotti che hanno messo in lista dei giovani che alla fine manovreranno come vogliono. Ci sono pochi candidati indipendenti, gli attivisti più noti e rispettati non corrono perché temono per la propria vita e perché non credono che l’attuale sistema possa condurre a un parlamento pulito».

La paura che avvolge tanti attivisti è più che realistica: dopo gli oltre 600 manifestanti uccisi nelle piazze dalle milizie sciite e dalle forze di sicurezza irachene, l’ultimo anno è stato teatro di uno stillicidio di attivisti. Decine quelli uccisi per strada o fatti sparire e mai più ritrovati.

Per loro le piazze si sono mobilitate di nuovo, chiedendo giustizia e verità. Non hanno ottenuto nulla, se non le promesse del premier Kadhimi che ha ordinato qualche arresto e messo in piedi commissioni d’inchiesta, senza alcun risultato.

E la Rivoluzione si spacca. Dal movimento sono nate cinque entità politiche che si sono unite e hanno presentato un centinaio di candidati. Chi partecipa alla «coalizione» dice che il solo modo per portare avanti le aspirazioni delle nuove generazioni è entrare nelle stanze del potere. E che è tempo di maturità politica.

«I manifestanti sono divisi – risponde Y. – La maggior parte di noi boicotterà il voto. Alcuni accusano di tradimento chi si è candidato, perché così si legittima il governo». Intanto per le strade di Baghdad di poster elettorali se ne vedono pochi. Il Partito comunista, che non si presenta, ci attacca sopra adesivi con la scritta «No», non votate: «Molta gente strappa via i poster, anche se è illegale, come forma di protesta», dice Y. In tv politici di varie sponde si attaccano dandosi reciprocamente del corrotto senza avanzare proposte di sostanza.

«Al momento collaboro con la missione della Ue come osservatore alle elezioni – ci racconta S., un altro attivista – Vedendo le simulazioni, continuo a credere che questo voto non cambierà nulla. Non perché ci saranno brogli, ma perché è l’intero sistema a essere corrotto. Molti politici usano il loro potere per convincere le persone a votarli, promettono regali con i soldi pubblici. E ci sono armi, armi ovunque: le milizie le usano per spaventare e impedire così il voto verso certi candidati».

«Molti candidati avvicinano gli elettori promettendo soldi – aggiunge B., una giovane attivista – Gli stessi mezzi di sempre. Non c’è fiducia tra la gente: la maggioranza dei candidati sono membri dei partiti già in parlamento e le facce nuove sono state comprate o minacciate. La campagna di boicottaggio che si è creata è più strutturata che in passato perché dopo le proteste abbiamo capito che il cambiamento può arrivare in modi diversi, senza dover passare per le elezioni».

«Stavolta abbiamo più fiducia in noi stessi e in quello che possiamo fare. La mia speranza è che torneremo in strada a chiedere vera democrazia».