Uno «sbattezzo», un ritiro dall’istituto della paternità – che è un rapporto giuridico e insieme affettivo -, un segnale di amaro non riconoscimento del padre per il suo frankenstein. Il no che ieri Romano Prodi ha detto alle primarie del Pd è il gesto simbolico che sancisce la mutazione genetica del suo ormai ex partito. Per questo è destinato ad avere conseguenze, e non solo simboliche, sul futuro Pd, quello nato il 19 aprile 2013 con il voto dei 101 ignoti contro la sua elezione al Colle; cresciuto nella culla tossica delle intese con il Pdl di Berlusconi – e cioè dell’avversario di sempre del Professore; e che presto finirà nelle mani del ’rottamatore’ Renzi.
Il professore ha parlato a una tv locale, TeleReggio, quasi a togliere peso alla notizia. Anche perché, spiega Sandra Zampa, deputata già sua portavoce, «il vero gesto di rottura è stato non aver preso la tessera del Pd, lui che nella sua lunga carriera di tessere non ne ha mai volute, neanche ai tempi della Dc. Che non voti alle primarie è solo la conseguenza». Fatto sta che in questi giorni di «degenerazione» (Cuperlo), di «pasticcio» ai congressi locali (Renzi), l’ex premier era dato indeciso fra i due giovani candidati, Renzi e Civati. Come se nonostante tutto un futuro per il Pd lo vedesse, e in qualche misura vi partecipasse. Il professore ha voluto stroncare ogni supposizione: «Non voterò alle primarie: non per polemica, ma ho deciso di ritirarmi dalla vita politica. Non sono un uomo qualunque, se voto devo dire per chi, come e in che modo». Aggiungendo, come fosse ormai un osservatore, l’augurio «che in tanti vadano a votare». Tanti auguri.
Chi ci ha parlato in questi mesi racconta dell’amarezza per i 101, ma di un gelo che viene da lontano. Racconta Prodi a Marco Damilano, in Chi ha sbagliato più forte (Laterza), di quel 13 aprile in cui Berlusconi a Bari dice che con Prodi presidente «ci toccherebbe lasciare il paese». La folla grida buh. «Ovunque, quando qualcuno dall’esterno ti attacca, la tua organizzazione ti difende: è una regola elementare. Nei miei confronti non c’è stata una parola di difesa arrivata dalla mia parte dopo l’attacco di Berlusconi di Bari. È stata questa la mia più grande delusione». Sono solo in tre, dal centrosinistra, a difenderlo: Delrio, Bindi, Vendola. Lo stesso sentimento è confermato da Sandra Zampa nei Tre giorni che sconvolsero il Pd (Imprimatur). «Romano non ne vuole più sapere», spiega oggi Zampa. «Le sue critiche al Pd le ha espresse più volte. E ogni volta c’è sempre qualche parlamentare che mi dice: ’se sta fuori allora che stia zitto’. C’è un modo di dire reggiano che spiega la situazione in cui non si vuole più provare: ’stare in mezzo all’uscio’».Ora Prodi si mette fuori davvero, ma forse non per starsene zitto.
È il finale di un amore che sembrava odio, quello fra Prodi e i dirigenti del centrosinistra. Unico leader ad aver vinto due volte contro Berlusconi, unico ad essere tirato giù due volte da fuoco amico: quello di Fausto Bertinotti, nel ’98 (ma i comunisti dell’anziano Armando Cossutta spaccarono il Prc per far proseguire il primo governo di centrosinistra della storia recente). Quello di Veltroni nel 2008, quando il segretario del neonato Pd pronunciò il fatidico «correremo soli», uno schiaffo agli alleati di una maggioranza zoppa guidata da «un poeta morente» (Bertinotti).
Riflette Walter Tocci in Sulle orme del gambero (Donzelli), viaggio a ritroso sui luoghi dei delitti del centrosinistra: «Il segretario investito dalle primarie avrebbe dovuto farsi strenuo difensore di Prodi, aiutandolo a rafforzare e a migliorare l’azione di governo, per darsi tempo nel consolidamento del progetto del partito. Prevalse invece la tentazione della scorciatoia che aiutò la sconfitta. Non è stato un difetto solo di Veltroni, anche di D’Alema nel 1998 e di Occhetto nel 1993-94. Nella generazione post-comunista la ricerca della soluzione a breve sembra quasi una rivolta contro l’educazione alla lunga durata ricevuta in gioventù».
In quel decennio il professore è bersaglio di freddezze, ironie e congiure di palazzo. L’infinito duello con D’Alema, fino a ieri. La critica degli ex dc per non aver rifatto la Dc, degli ex pci per un atteggiamento di sufficienza verso i partiti. Che gli valse una breve stagione nel pantheon grillino. Salvo non votarlo quel 19 aprile 2013. Il giorno che per Tocci dice tutto: «La sua mancata elezione ha suggellato la fine dell’ulivismo, che si era già consumata tanti anni prima con la costituzione dei Ds e della Margherita. Questi partiti sono stati due dissolvenze dall’Ulivo, hanno dato inizio a una scena diversa impedendo che il film ulivista si concludesse con la formazione di un vincente soggetto plurale della sinistra italiana. A metà degli anni duemila le classi dirigenti diessina e cattolica riconoscono l’errore, si uniscono per dare vita a un partito nuovo, ma invece portano le rispettive decadenze nel Pd. I fondatori diventano subito gli affossatori del progetto che perde rapidamente lo smalto iniziale».
Negli ultimi anni il professore ha ripercorso poco i suoi non pochi sbagli, le ragioni della sua solitudine, la sua parte nel funerale delle alleanze larghe diventate, come l’Unione, vittorie impraticabili per antonomasia. «L’errore politico che mi rimprovero è di non aver fatto un partito dopo la notte delle primarie del 2005. Non l’ho fatto perché volevo unire e non dividere», è la sua verità che consegna a Damilano.
Come le altre volte, anche ieri dal Pd è calato il gelo. «Faremo di tutto per convincerlo che può tornare ad avere fiducia nel nostro partito» (Cuperlo), «per costruire un Pd affine al suo spirito»(la renziana De Monte). «La delusione si può capire», dice il prodiano Pippo Civati. «E non serve rispondere con mozioni d’affetto. Bisogna dare una risposta al problema politico che tante volte ha posto. Il Pd che voglio recupera lo spirito prodiano che all’epoca ha conquistato tanti ragazzi, come me. Sono l’unico che non ha nessuno di quei 101 fra i suoi sostenitori. E spero che la tessera numero uno del nuovo Pd del 2014 la daremo al Professore».