I manufatti sui fiumi che separano due Paesi molto spesso li chiamano ponti dell’amicizia. Non fa eccezione quello che congiunge a Ghumdhum il distretto bangladese di Bandarban allo Stato birmano del Rakhine dove ieri 150 Rohingya, ossia una trentina di famiglie, avrebbero dovuto iniziare un rimpatrio che in teoria dovrebbe segnare l’inizio del ritorno a casa di quasi un milione di persone scappate negli anni dalle maglie della repressione birmana. Ma ieri, a sorpresa ma non senza forti pressioni internazionali, il rimpatrio è stato cancellato.

Quel ponte è del resto un posto davvero sinistro se solo otto mesi fa i poliziotti birmani spararono a un gruppo di rohingya che protestavano per i parenti intrappolati nella terra di nessuno tra Myanmar e Bangladesh. Quei colpi di mitraglia segnalavano quanto è certo: il rimpatrio non è sicuro. Non ci sono le condizioni di sicurezza: le famiglie rohingya, che hanno per altro espresso a più riprese i loro timori, possano tornare senza paura.

E dove poi, se almeno 1.500 villaggi rohingya sono stati dati alle fiamme quando 700mila persone, un anno e mezzo fa, furono costrette a chiedere rifugio a Dacca? La notizia della cancellazione è stata data ieri pomeriggio dal capo della diplomazia bangladese Mahmood Ali perché Dacca è contraria a rimpatri forzati. Ali ha spiegato, tra l’altro, chi invece spalleggia Naypydaw facendo così capire il destino dei rimpatriandi: India e Cina stanno costruendo rispettivamente 250 e 100 abitazioni per chi torna ma senza servizi, scuole, garanzie. Ecco dove dovrebbe andare chi torna a casa. A casa si, ma non nella «sua».

A mettere in guardia sui rischi di un rimpatrio non sicuro era stata martedì l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, che aveva chiesto al Bangladesh di sospendere i piani per il rientro di 2.260 rifugiati considerati dall’Unhcr i possibili soggetti dei primi rimpatri. Bachelet ha detto di continuare a ricevere segnalazioni di violazioni dei diritti dei rohingya rimasti nel Nord del Rakhine, loro territorio d’origine: «Circa 130mila sfollati interni, molti dei quali sono rohingya, rimangono nei campi del centro del Rakhine. Altri 5mila sfollati restano nella terra di nessuno tra Myanmar e Bangladesh, mentre oltre 4mila si trovano a Sittwe (Myanmar), dove sono soggetti a una vasta gamma di restrizioni. Centinaia di migliaia di persone in altre parti del Rakhine sono private dei diritti alla libertà di movimento, all’accesso ai servizi di base e ai mezzi di sostentamento – conclude l’Alto commissario – così come sono private del loro diritto a una nazionalità».

Ieri mattina Amnesty ha rincarato la dose definendo i rientri organizzati, in attuazione dell’accordo del 30 ottobre tra Dacca e Naypyidaw, «un piano sconsiderato che mette vite a rischio. Donne, uomini e bambini verrebbero ricacciati nelle mani delle forze armate birmane, privi di garanzie sulla loro protezione, per vivere con chi bruciò le loro case e alle cui pallottole riuscirono a scampare».