Alle 17.30 di oggi a Perugia si svolgerà una iniziativa per il No al referendum costituzionale organizzata dall’Anpi alla quale parteciperà il suo presidente nazionale Carlo Smuraglia, che si svolgerà al Teatro del Pavone, lo stesso luogo dove il 6 maggio la ministra Boschi ha insultato i sostenitori democratici del No equiparandoli ai fascisti di CasaPound.

L’iniziativa, oltre ad essere una risposta civile alla sguaiata provocazione della ministra, vuole mettere l’accento sullo stravolgimento di alcuni principi tipici del costituzionalismo democratico che sono capovolti dall’insieme delle due leggi, elettorale e costituzionale, approvate dalla maggioranza parlamentare. Innanzitutto viene ribaltata l’idea di fondo secondo la quale «I governi cambiano, la Costituzione rimane», soppiantata da quella per cui «La Costituzione deve cambiare perché il governo resti». Infatti la riforma costituzionale è diventata il cuore del programma politico del governo e quindi si vuole degradare la Costituzione al livello di una qualsiasi legge politica, sacrificando il suo ruolo essenziale di «casa comune» posta al di fuori e al di sopra della politica e delle maggioranze congiunturali.

Altro ribaltamento riguarda il ruolo della legge elettorale, che dovrebbe essere servente nei confronti dell’assetto dei poteri disegnato nella Carta. Ebbene l’Italicum, approvato un anno prima della legge costituzionale, ha dato la linea che questa doveva seguire, cioè quella della non elettività popolare del senato, e per giunta, riguardando la sola camera, ha compiuto la scelta avventuristica di dare per scontato che la «riforma» costituzionale sarà senz’altro approvata. Inoltre la legge elettorale, anziché garantire il principio di rappresentanza e la partecipazione, le comprime in modo irragionevole e squilibrato, in quanto attribuisce almeno il 54% dei seggi alla camera a un’unica lista con il 30% o anche meno dei voti e riduce il valore del voto alle altre liste a circa un quarto di quello assegnato al voto per la lista arrivata in testa.

Lo stesso principio della sovranità popolare, che va esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione, viene ad essere drasticamente ridimensionato, in quanto i cittadini non avranno il diritto di eleggere gli organi dei cosiddetti Enti di area vasta (così come hanno perduto quello di eleggere i consigli e i presidenti delle province) e il senato, messo nelle mani per 95 membri (consiglieri regionali e sindaci) dei consigli regionali e per 5 del presidente della Repubblica, né potranno scegliere almeno i tre quinti dei deputati che saranno rappresentati dai capolista bloccati e quindi in pratica nominati dall’alto.

Anche il principio della separazione e dell’equilibrio dei poteri non resta immune dalla furia iconoclasta dei cosiddetti riformatori. Avremmo infatti una Repubblica fondata sulla concentrazione e sullo squilibrio fra i poteri: all’interno del parlamento fra camera e senato, privo di legittimazione popolare e con poteri non decisionali sulla gran parte delle leggi, ma che potranno solo ritardare il voto finale della camera, dando vita per di più a complicazioni procedurali (con almeno sette diversi procedimenti legislativi) e ad una frequente conflittualità; fra parlamento e governo, controllato da una lista di minoranza trasformata artificialmente in maggioranza, la quale potrà imporre la sua volontà su politica economica, politica estera, giustizia, attuazione (o inattuazione) dei diritti, delibera dello stato di guerra; infine fra governo e «capo» plebiscitato dal popolo, che darà vita ad un sistema basato sull’uomo solo al comando, da sempre gradito all’estrema destra, senza i contrappesi previsti nel presidenzialismo degli Stati uniti (dove il congresso ha poteri forti e può anche destituire il presidente per avere commesso «gravi reati», come è stato considerato per Clinton quello di avere mentito al parlamento). Altro che innovatori! Sono autentici conservatori quelli che vogliono sancire nella Costituzione lo stato di cose esistente creato negli ultimi venti anni, fondato di fatto sullo squilibrio fra i poteri e sull’appropriazione della funzione legislativa da parte del governo.

A essere pregiudicato è anche il principio autonomistico, in quanto il necessario riequilibrio rispetto alla riforma «federalista» del 2001 sfocia nell’estremo opposto di un nuovo centralismo, che attribuisce alla sola camera, con esclusione del senato, in teoria rappresentativo delle istituzioni territoriali, la competenza legislativa in materie di sicuro interesse regionale, come la tutela della salute, l’istruzione, il governo del territorio, l’ambiente, e che per di più esclude dalla nuova disciplina le Regioni a statuto speciale fino a che non saranno modificati i loro statuti con legge costituzionale.

Infine la Repubblica democratica fondata sul pluralismo viene ad essere messa in discussione da chi straparla di assenza di alternativa al governo e al presidente del consiglio in carica e minaccia sfracelli se vincerà il No. In una democrazia costituzionale, e quindi pluralistica, vi è sempre la possibilità di dare vita ad una alternativa e nessun ricatto politico può giustificare il ribaltamento di principi fondamentali della Costituzione antifascista.