Con il sondaggio pubblicato dal Sole24Ore il 1° settembre i sonni di Zingaretti – già inquieti – si popolano di incubi, mentre la Direzione del partito si avvicina.
La Toscana è sul filo del rasoio per il voto regionale, con il No addirittura al 52% nel referendum: 59% nel Pd, 76% Fi, 44% FdI, 64% Lega. Solo M5S è monoliticamente per il sì (99%).

Una tempesta perfetta potrebbe essere in arrivo. E qualcuno potrebbe malignare che la debolezza del Pd ha nome Zingaretti.

Capiamo dunque i toni e i contenuti della lettera di Zingaretti a Repubblica. Al segretario vogliamo dire che può essere vero, per quanto riguarda la destra, l’intento di usare il No, a prescindere dal merito, come “clava per colpire il Pd, la maggioranza e il governo stesso”. Ma deve essere chiaro, per quanto riguarda invece il variegato mondo della sinistra, che questo intento assolutamente non c’è. Piuttosto, il No si fonda su serissime ragioni, che per la loro rilevanza non si possono pretermettere al fine di difendere il Pd o il governo. Bisognava evitare di porre partito ed esecutivo nell’angolo in cui sono finiti, e nel quale sarebbero finiti comunque, anche senza il referendum.

Come scrive Fabozzi su queste pagine, se c’è un trappolone Zingaretti se l’è costruito da sé. Ora, non vogliamo affatto entrare in partite a scacchi o giochi al massacro. Ma non possiamo – da cittadini – ignorare gli errori e le questioni di merito che conducono al No.

Il primo errore. Non si baratta la Costituzione con la nascita di un governo. Sono beni incomparabili. Dalle riforme a colpi di maggioranza, che abbiamo conosciuto con il Titolo V del 2001, e poi nel 2006 e 2016, arriviamo ora alle riforme da ricatto tra partners di maggioranza. Di male in peggio. Per alcuni, saremmo addirittura agli esiti di faide interne a M5S.

Il secondo errore. Andava messo in standby l’ultimo voto sul taglio dei parlamentari, portandolo in dirittura finale insieme ai cosiddetti correttivi. Questo avrebbe consentito migliori risposte sul piano tecnico, garantendo al tempo stesso tutti su quello politico. Bastavano pochi mesi.

Il merito. Zingaretti punta molto sulla legge elettorale proporzionale. Allo stato solo promessa, pur se giungesse in porto – e non è per nulla certo – nelle regioni piccole e medie non basterebbe ad assicurare una adeguata rappresentanza. Soprattutto in Senato. Lo sbarramento di fatto sarebbe molto più alto del 5% su cui si litiga, e il paese sarebbe rappresentato a pelle di leopardo.

Per ovviare al deficit di rappresentanza, si pensa di affiancare il sistema proporzionale con circoscrizioni pluriregionali, cancellando la base elettorale regionale oggi richiesta dall’art. 57 della Costituzione per il Senato. In ipotesi, affettando idealmente la regione piccola, e aggregandone ai fini del voto i pezzi a regioni maggiori. Funzionerebbe?

Anche a non voler considerare le difficoltà e i costi di una campagna elettorale in mega-circoscrizioni, sarebbe comunque difficile per i territori aggiunti conquistare un proprio rappresentante. Inoltre, l’elettore si troverebbe a votare governatori diversi, consiglieri regionali diversi, ma uno stesso senatore. E l’eletto – vero Batman della politica – si troverebbe a rappresentare territori, storie, economie diverse, e magari a rapportarsi con equilibri politici regionali contrapposti. Auguri.

Già basta e avanza per un No. Gli altri correttivi – delegati regionali, elettorato attivo – sono riformette, e per un Sì non bastano. L’argomento del (risibile) risparmio è felicemente scomparso dal dibattito. È poi falso che il parlamento italiano sia pletorico rispetto a quello di altri paesi a noi comparabili. Come è falso anche l’argomento dell’efficienza, smentito soprattutto dalla constatazione che l’inefficienza delle istituzioni viene dalla litigiosità di maggioranza. L’abbiamo visto per il Mes e lo vediamo in queste ore per la querelle sui vertici dei servizi. Rifletta dunque Zingaretti, prima di crocifiggere il suo riluttante partito sul Sì. I pretendenti già scaldano i motori.

È ben vero che anche la sinistra ha in passato ipotizzato tagli. Ma era un altro mondo, come ha spiegato benissimo su queste pagine Gianni Ferrara, decano dei costituzionalisti italiani e protagonista di quel tempo. Erano proposte volte a rafforzare il parlamento, non – come oggi – a indebolirlo. Nulla abbiamo da aggiungere.