È trascorso un anno dal massacro più sanguinoso nella storia moderna del Nicaragua: 19 vittime in tutto il paese, nel giorno della Madre Nicaraguense; di cui 11 a Managua per mano di cecchini che sparavano dai tetti del Estadio Nacional su un’immensa manifestazione di protesta; per ordine del “fu” comandante guerrillero Daniel Ortega.

Se si sommano poi gli ultimi 13 mesi dalla inerme rivolta dei millennials nicas, il bilancio va dai 325 ai 550 morti, a seconda che le stime provengano da organismi per i diritti umani nicaraguensi (dichiarati illegali) o internazionali (espulsi dal paese); almeno 650 i detenuti; e oltre 60mila le persone che dal settembre scorso si sono via via rifugiate all’estero (soprattutto in Costa Rica). Numeri da capogiro per un paese che conta appena 5 milioni di abitanti.

 

Managua, 30 maggio 2019 (foto Afp)

 

Eppure la resistenza non è mai venuta meno. Nonostante la dittatura orteguista operi una feroce persecuzione con la militarizzazione di fatto del paese; il varo di leggi «antiterrorismo»; la cancellazione di ogni libertà d’espressione e l’impiego di squadracce a caccia di quegli studenti costretti alla clandestinità.

Del resto è dal suo ritorno al potere nel 2007 che Ortega ha attuato un controllo assoluto dello stato; abbandonando a se stessa la propria base sociale contadina che non lo votava quasi più (clamoroso l’ultimo broglio del 2016 quando le urne andarono deserte); e patteggiando un’alleanza con l’oligarchia storica di questo paese (in cambio di esenzioni fiscali, sindacati compiacenti e i salari più bassi della regione). Il tutto per semplicemente sommarsi ad essa nelle ricchezze. E prefigurare una nuova dinastia dopo quella dei Somoza: a cominciare dall’esoterica consorte-vicepresidente, e i loro figli (collocati in gangli strategici). Tranne una: Zoilamerica, rifugiatasi all’estero per aver a suo tempo denunciato gli abusi del patrigno Daniel (coperti dalla madre) quando era minorenne.

Oggi Ortega, “normalizzata” la situazione, simula una disponibilità al negoziato con la Alianza Civica. Che si è nel frattempo divisa fra l’impresa privata, fintamente distanziatasi dal regime e alla quale basterebbe un accordo di facciata per far ripartire un’economia al collasso, e la società civile organizzata che chiede giustizia per le vittime, liberazione dei prigionieri politici ed elezioni anticipate, libere e verificate.

A far da mediatore il nunzio vaticano Stanislaw Sommertag, dal ruolo controverso dopo il recente irrituale allontanamento a Roma del vescovo ausiliare di Managua, Silvio Baez; da sempre critico verso la coppia presidenziale tanto da essere stato più volte minacciato di morte.

La comunità internazionale (Onu, Ue e Organizzazione stati americani) ha condannato più volte il regime, anche per crimini di lesa umanità. Ma è troppo (maldestramente) preoccupata dalla ben più importante crisi venezuelana. Ortega ha così buon gioco per farsene scudo, mantenendo con roboanti slogan antimperialisti la sua appartenenza di facciata all’Alleanza Bolivariana (da cui fin che ha potuto ha succhiato cinque miliardi di dollari in denaro e petrolio). Quando in realtà, col patto neoliberista con l’imprenditoria locale e gli accordi con il Fmi, aveva da tempo praticato un tacito accordo di non belligeranza con il «gigante del nord» (altro che tentato golpe ordito da Washington).

È che il Nicaragua odierno è un caso profondamente diverso dal Venezuela, dove gli Usa sono impegnati in un’operazione imperiale d’antan per recuperare il controllo dell’oro nero. Tanto che Donald Trump è stato costretto malvolentieri ad adottare sanzioni relativamente blande contro Managua; che puntano comunque a impedire il «ridislocamento» degli ingenti capitali in mano al clan Ortega.

I generosi «nipoti di Sandino», soli più che mai, non potrebbero dunque fare di più per recuperare le libertà democratiche nel proprio paese. Anche se a loro si deve l’aver definitivamente smascherato, pur a caro prezzo, l’Ortega di oggi.

E per chi non si fosse fatto ancora una ragione della realtà, basta chiedersi come mai Ortega abbia nominato dal 2013 come proprio ambasciatore niente meno che Maurizio Gelli, figlio del «venerabile» Licio; prima in Uruguay e ora in Canada. Ma che c’entra Gelli con il Nicaragua? E soprattutto, in cambio di cosa gli ha assicurato la tanto preziosa immunità diplomatica?