Il suo lungo articolo sulla lavorazione di La prova del fuoco, di John Huston venne trasformato in un libro, Picture, che Hemingway (su cui lei aveva scritto un pezzo non troppo lusinghiero) definì «migliore di tanti romanzi». Per «Newsweek», lo stesso testo, era «una delle cose più significative mai scritte su Hollywood».

Il suo reportage dal set di Un sogno lungo un giorno è una penetrante fotografia dell’utopia coppoliana sull’orlo del collasso, e una lettura acuta del perché l’industria hollywoodiana la vedeva come una minaccia. Ma Lillian Ross, che è mancata l’altro giorno a New York, a novantanove anni, e ha firmato ritratti indelebili di Kurosawa, Clint Eastwood, Ingrid Bergman, Robin Williams e della Hollywood della caccia alle streghe, non scriveva solo di cinema.

Tra i più di cinquecento articoli che ha firmato per il «New Yorker» – nella cui prestigiosa redazione lavorò dal 1945, dopo un breve periodo in quella tabloid del «New York Post»- ci sono pagine bellissime sul pageant di Miss America, su Adlai Stevenson, su una scuola privata dell’Upper East Side e sulla gita scolastica di una classe dell’Indiana a New York.

Nota per la sua scrittura densa di immagini e per la sua capacità di cogliere, e isolare, la qualità emblematica di un gesto, una frase, un’azione impercettibile, Ross era considerata un precursore del new journalism, esemplificato da scrittori come Tom Wolfe, Hunter Thompson, Gay Talese, Joan Didion, Norman Mailer.

La notizia della sua morte arriva proprio alla vigilia dell’uscita di due documentari (targati Netflix, e in programma al New York Film Festival) dedicati a due grandissimi esponenti di quel giornalismo, che univa alla scrupolosità del reporting anche una qualità letteraria: Joan Didion: The Center Will Not Hold, diretto dal nipote della scrittrice, Griffin Dunne, e The Voyer, su Guy Talese.

La scomparsa di Ross arriva anche a ridosso della notizia della messa in vendita di «Rolling Stone», una delle riviste (insieme al «New Yorker») che più hanno contribuito alla fortuna del new journalism, con reportage oggi storici di Tom Wolfe, John Eszterhas e Hunter Thompson.
Annunciata da Jann Wenner, il fondatore del bisettimanale sbocciato, nel 1967, da un loft nel cuore della San Francisco della controcultura, la vendita di «Rolling Stone» è un «segno dei tempi» di cui avremmo volentieri fatto a meno.

Ridotto all’osso causa la fuga degli inserzionisti dalla carta stampata, la sua reputazione incrinata dopo la ritrattazione di un articolo su un supposto stupro di gruppo in un’ università della Virginia, il bisettimanale di Wenner – dietro alle sue copertine musicali un po’ old fashioned- ha portato lo spirito dei Sixties nel terzo millennio mantenendo alto l’investimento sul giornalismo long form d’inchiesta politica e puntando su temi cari alla gioventù radical di cinquanta anni fa come a quella di oggi -l’ambiente, l’antipatia per la guerra, l’intolleranza razziale o religiosa, lo strapotere di Wall Street.

Matt Taibbi non ha la forza letteraria di Wolfe o Thompson, ma la sua definizione di Goldman Sachs come «una grossa piovra vampiro avviluppata intorno al volto dell’umanità» rimane una delle immagini più efficaci della crisi finanziaria del 2008.
Nel 2010 è stato un micidiale reportage di Michael Hastings a fare licenziare il generale Stanley McChrystal. Wenner ha detto che gli piacerebbe rimanere alle redini del giornale anche dopo la vendita – nuovo proprietario permettendo.