Quella maturata in Nevada è stata la prima vera vittoria di Bernie Sanders, che sembra essere finalmente riuscito ad allargare la base del suo movimento, composto principalmente da tanti giovani bianchi, ma ora anche da blue collars (lavoratori manuali), ispanici, e in ascesa anche tra gli afroamericani.

Per Sanders in Nevada ha votato il 46,6% dei delegati del partito, per Joe Biden il 19,2 e per Pete Buttigieg il 15,4. Elizabeth Warren è arrivata solo quarta e si è congratulata con il suo rivale, durante un comizio che stava tenendo a Seattle: «Bernie ha vinto. Congratulazioni Bernie».

IL POSIZIONAMENTO al secondo posto, anche se molto distaccato da Sanders, regala un po’ di respiro alla campagna di Joe Biden, fino a qui disastrosa, ridimensiona il fenomeno Buttigieg e continua a schiacciare Elizabeth Warren, incapace di galvanizzare la base, nonostante un programma impeccabile.

Il numero dei delegati raccolto fino ad ora è ancora piccolo rispetto alla soglia di 1991 necessaria per ottenere la nomination, ma dal Nevada arriva un segnale importante: Sanders, per ottenere quel numero, ha fatto breccia anche tra i moderati. Il risultato positivo di Bernie mostra che, posti di fronte a una scelta tra candidati più moderati, la cosiddetta “resistenza”, che promette un ritorno all’era pre Trump, e la visione rivoluzionaria di Sanders, di un’America radicalmente diversa, gli elettori democratici stanno scegliendo la rivoluzione.
Il Partito Democratico del 2020 è un partito ben più a sinistra di quanto non fosse fino a pochi anni fa, e anche i moderati lo sono molto meno. Definire infati moderato il programma di Buttiggieg sarebbe ingiusto, e anche il tradizionalista Joe Biden ha un programma più a sinistra di quello del presidente Barack Obama, di cui è stato il vice.

IL FATTO È CHE comunque, questi programmi, hanno il fine di ripristinare un ordine antecedente alla bufera Trump, migliorandolo. Sanders, invece, propone una visione degli Stati uniti completamente diversa, socialdemocratica, mai vista. «Votare per Sanders non è semplicemente votare per un candidato, è votare per un movimento e per la rivoluzione», ripetono i suoi sostenitori, spiegando così anche la riluttanza che si troverebbero di fronte al momento di votare per un altro nominato, mentre i supporter degli altri candidati sono più propensi ad attenersi allo slogan «vote blue, no matter who», vota blu (il colore dei democratici), non importa per chi.

In Nevada il potente Culinary Workers Union, il sindacato dei cuochi, che si oppone al piano sanitario “Medicare for All” di Bernie Sanders, e ha trascorso le ultime settimane della campagna impegnato in una lotta contro il senatore del Vermont, non sembra sia riuscito a indebolirlo.

Nelle votazione dei caucus del Nevada si sono viste molte magliette rosse appartenenti proprio ai membri di quel sindacato, ma complessivamente, Sanders ha ottenuto il 34% dei voti dei rappresentanti di tutti i sindacati, superando tutti i suoi rivali, indipendentemente dagli endorsement e dalle indicazioni fornite dalle singole organizzazioni.

Il prossimo appuntamento elettorale del 29 febbraio in South Carolina e il super Tuesday, martedì 3 marzo, giorno in cui voteranno 14 stati contemporaneamente, potrebbero incoronare Sanders come candidato di questa tornata elettorale, o precipitare in una condizione di confusione, con più candidati plausibili e nessuno papabile.

Questo è uno scenario di cui beneficerebbe solo il presidente Donald Trump.

ANCHE IL NEW YORK TIMES che non ha mai supportato Sanders, sta iniziando ad ammorbidirsi, e ha affermato che, comunque, sebbene sia ancora possibile che i centristi democratici rimettano insieme i loro cocci, al momento Bernie Sanders è il favorito per la nomination. E ci sono molte cose da dire al riguardo, ma la più importante è che Bernie non è una versione di Trump inclinata a sinistra. Anche se non si è d’accordo con le sue idee, non è un aspirante sovrano autoritario, e comunque fa parte di un partito più sano, coraggioso e meno pronto al farsi suddito del suo leader.