E’ difficile dimenticare Violaine Vercors, forse impossibile. La protagonista dell’Annuncio a Maria di Paul Claudel (reperibile nella traduzione di Francesco Casnati, Rizzoli 2001) mostra durante l’intera pièce uno spessore psicologico non agilmente ravvisabile nella letteratura drammatica occidentale. Violaine Vercors: vero cuore, vero corpo – recita l’etimologia provenzale del cognome –, una Beatrice in azione, capace di rendere docile e trasparente tutto ciò che vede, devota a Dio e alla sua intima felicità persino nella sventura più nera, cioè quando è allontanata dal consorzio umano, privata dell’amore, distrutta nelle sembianze (dalla lebbra), insomma nella sconfitta assoluta della sua vita. Violaine Vercors: il tratto più adamantino di quella «gioia» che Claudel ha sempre inseguito e infuso nei suoi personaggi dopo la conversione – da lui raccontata nel dettaglio in un testo vibrante, Ma conversion – avvenuta a Notre-Dame mentre ascoltava il Magnificat nella notte di Natale del 1886. Gioia che appartiene, sebbene con abito cangiante, a un’altra figura femminile in un’altra opera teatrale, La scarpetta di raso (meritoria la prima traduzione integrale in Italia a cura di Simonetta Valenti per Le Château, 2011): Doña Prouhèze, Donna Prodezza, anche qui vale il detto «nomen omen».
Violaine e Prouhèze, l’una in un Medioevo oscurato da cruente battaglie, l’altra in un barocco empito di conquiste e rinunce, sono il segno più audace di questa perfetta letizia: lo conferma Hans Urs von Balthasar nel volume L’eros redento Scritti su Paul Claudel (a cura di Danilo Zardin, prefazione di Elio Guerriero, traduzione di Giuseppe Reguzzoni con la revisione di Danilo Zardin, Cantagalli, pp. 104, € 16,00), che raccoglie la «lunga fedeltà» del teologo svizzero ai componimenti del poeta francese, i quali ebbero l’energia di riassestare da un’ardua convalescenza la mistica Adrienne von Speyr e ispirare la nascente Comunità di San Giovanni, come ricorda Guerriero. Scrive invece Zardin nella nota di lettura ai quattro articoli balthasariani: «Nel 1939, a Salisburgo, prima ancora che la Scarpetta di raso potesse conoscere il suo laborioso debutto sulla scena, Balthasar ne pubblicò l’edizione originale della traduzione in tedesco. Volle anche unirvi una postfazione che resta, a tutt’oggi, magistrale esempio di decifrazione in chiave teologica dei significati profondi racchiusi nelle più alte creazioni letterarie dell’epoca moderna».
Nel primo contributo il teologo-traduttore analizza il nesso tra amore e mondo, ponendo un quesito fondamentale che collima con l’irricevibile domanda claudeliana: «Com’è possibile appartenere allo stesso tempo completamente al mondo e completamente a Dio»? Prodezza e Rodrigo vivono il loro rapporto nell’assenza, nell’annientamento, eppure etiam peccata: l’esergo agostiniano svela il passaggio da eros ad agape, dal desiderio all’offerta di sé. «Anche il peccato – osserva Balthasar nel pezzo dedicato a Claudel e a Charles Morgan – è una nota nell’accordo del mondo e una strada verso Dio». D’altra parte, parlando sempre del legame irrealizzabile tra Rodrigo e Prodezza (che adombra quello di Paul e Rosalie Vetch, la Ysé di Partage de Midi), Balthasar aveva dichiarato: «Ogni volta che due esseri umani si amano, ne va del destino stesso della terra: l’amore ha senso solo in questo orizzonte, e il suo duplice movimento – quello dell’implacabile desiderio, lanciato avanti come una freccia, che nessuna realtà limitata può soddisfare, e quello dell’implacabile quiete, ruotante senza sosta su sé stessa, che non desidera null’altro che sé medesima – coincide con l’orizzonte del mondo e la domanda che la terra pone». Insomma, chiosa il pensatore di Lucerna, soltanto con la crocifissione – quel legno spalancato per cui si forma un angolo retto tra l’orizzonte del mondo e la domanda della terra – si è in grado di restare nella realtà materiale, allo schermo della sua presenza, senza essere schiacciati su di essa.
Ciò è visibile nella poesia lirica di Claudel, dalle Cinque grandi odi (1910) ai Volti radiosi (’47), in cui sono messe in rilievo, con il terzo saggio di Balthasar, le «catene della nostra esistenza, anzi della pena dell’esilio, che si trasformano nella poesia stessa e divengono improvvisamente l’espressione di un ansioso puntare alla corrispondenza, al Tu e, da ultimo, introducono al mistero (…) dell’essere insieme, della reciprocità». È un esempio di santificazione della letteratura, di bonifica dei confini relazionali: i personaggi claudeliani (con Violaine e Prouhèze al vertice) combattono strenuamente contro la loro volontà per accordarla al sentire divino: e questo doloroso abbassarsi si tramuta in gioia irrefrenabile, «è la gioia ciò che gli amanti si attendono l’uno dall’altro e che, infine, ottengono».
Tale prospettiva esistenziale è stata definita da Carlo Bo la «posizione Claudel», ossia lo sguardo purificato in virtù del quale fluisce l’unità terrestre nell’aperto dello slancio celeste senza che emerga una vera contraddizione. Zolla interiore incomprensibile per chi non si adegua alle lunghezze d’onda da cui essa s’irradia, la «posizione Claudel» è ciò che lascia «chiuse», «indecifrabili» le opere del diplomatico di Villeneuve-sur-Fère. Ma, alla fine, ogni cosa riesce ad acquisire significato perché «Dio scrive diritto anche sulle linee storte».