Eftimios 19/41

Vita morte e miracoli di un nespolo bonsai.

Vivevamo in un appartamento, ho tentato un bonsai.

Un amico teneva un nespolino in un vaso sul suo balcone e me lo regalò. Lo portai sul mio di balcone, il vaso era piccolo, il balcone era stretto, e mi venne in mente la pratica orientale del bonsai. Si fa così, mi disse qualcuno o qualcuna, gli tagli torno torno la corteccia, gli incidi l’anima con un punteruolo, poca acqua, niente e di rado, e lui cresce poco, si adatta, sopravvive in minuscolo.

Detto, fatto. Taglio, incido, nego, sorveglio, osservo. Cresceva poco, infatti. Se ne stava lì, silenzioso, rattrappito, come un cane che aspetta ad occhi chiusi una bastonata e si fa piccolo piccolo, ma faceva spuntare qualche fogliolina, qualche fiore, l’anno dopo fece persino un nespolo, nespolo giapponese, i nespoli nostri sono in realtà nespoli giapponesi, i nostri, i nespoli italiani, sono più tondi e schiacciati ai poli, più scuri, marrone scuro, lo sapevate, lo sapevi?

Ma quando fu pronta, spietrata, arata, la terra della casa tra gli alberi al lago, lo trasportammo in campagna, in collina, tra i boschi, e lo sistemammo dentro una grande e bella buca. Acqua, luce, sole, aria, gli altri alberi fratelli intorno, gli uccelli, la brezza del mare, la pioggia del cielo. Esplose. In pochi mesi diventò un vero e grande e meraviglioso albero, come gli alberi con le foglie grandi e belle e dure dei quadri di Giotto. Poi, di colpo, morì.

Troppa la gioia, credo. Gli altri alberi intorno, tutta quella luce, quell’aria. Troppo. Non immaginava possibile tutto questo. Era il Paradiso, pensò, e morì.