La maledizione di Batman si chiama Frank Miller. Intendiamoci: Miller è stato una manna dal cielo per il fumetto statunitense e quello supereroistico in particolare. La saga dedicata al Cavaliere oscuro, arrivata in Italia a puntate su Corto Maltese, reinventava il personaggio dell’uomo pipistrello, offriva una serie di soluzioni grafiche inaudite, e dimostrava che anche personaggi codificati come gli eroi in calzamaglia potevano avere accesso a un trattamento creativo degno di Comic Art o Metal Hurlant. Ovvio che nessuna storia è lineare, tanto meno quella del fumetto. È indiscutibile però che Frank Miller ha segnato una frattura netta nell’immaginare i supereroi e il loro immaginario. Basti pensare che per la prima edizione completa de Il ritorno del cavaliere oscuro (pubblicata Rizzoli – Milano libri nel 1989) le postfazioni furono affidate ad Alberto Abruzzese (il cui La grande scimmia è ancora oggi un testo chiave per comprendere le dinamiche dell’immaginario collettivo e i suoi mitologemi) e a Sergio Brancato (certo, c’era anche la prefazione di Alan Moore mentre oggi i due autori non si parlano nemmeno, ma questa è un’altra storia).

MILLER METTE in campo un racconto frammentato, come passato attraverso la centrifuga di uno zapping impazzito, un montaggio rapidissimo, nel quale fiammeggiano dialoghi hard boiled degni di Mickey Spillane, conservando negli occhi la lezione di Frank Robbins e Will Eisner. Batman non sarebbe mai più stato lo stesso. E nemmeno Miller. L’oscurità del Batman anziano immaginato da Miller sarebbe restata attaccata al costume dell’uomo pipistrello per sempre. Gli sgargianti colori pop psichedelici della serie televisiva sixties solo un lontanissimo ricordo. A farne i conti sarà soprattutto Joel Schumacher che nel tentativo di sottrarsi al noir di Tim Burton che in Batman e Batman – Il ritorno aveva offerto una lettura personalissima del personaggio, prova ad attualizzare il delirio pop e cromatico del telefilm.
Mal gliene incolse. Ancora oggi Batman Forever e Batman & Robin sono considerati (ingiustamente) un imbarazzo e poco altro. Chi prende alla lettera il dettato milleriano è Chris Nolan che nella sua trilogia raggiunge livelli di cupezza inaudita sotto la cui coltre solo il capitolo centrale – Il cavaliere oscuro – manifesta a tratti sprazzi di autentica visionarietà. Chi della oscurità milleriana ha fatto un dogma indiscutibile è naturalmente Zack Snyder cui era riuscito il colpo di portare al cinema l’epico graphic novel milleriano 300 e che per tutte le sue sortite nell’universo DC ha steso uno strato inerte di nero su tutto. Anche su Superman, da sempre contraltare luminoso di Batman. Non a caso tutta l’interminabile querelle sulla Justice League verteva sulla natura dark del progetto, annacquata da Joss Whedon.

MATT REEVES, autore di Blood Story, magnifico remake del pretenzioso Let the Right One In, non si distacca nemmeno lui dalle consegne milleriane, anzi, ma recupera la visione originaria della Gotham di Burton immaginata e supervisionata dal compianto Anton Furst. Non solo. Nella città sulla quale s’abbatte una pioggia ininterrotta, come se fosse un omaggio alla metropoli de Il corvo, nelle cui strade si aggira una folla variopinta che sembra uscita da Blade Runner e dal bar Scum & Villainy di Mos Eisley di Guerre stellari, l’uomo pipistrello – interpretato con una geniale scelta di casting da Robert Pattinson, già capo dei vampiri emo della saga Twilight (come dire: da vampiro a… pipistrello) – s’aggira inquieto in cerca della sua vocazione. Reeves, invece d’infliggerci la solita origin story, la reinventa, calandola nell’azione del racconto. Tutto è già stato fatto, ma Bruce Wayne deve ancora prendere le misure a Batman (infatti non si trova affatto a suo agio per aria). Il nero del film, dunque, è anche il buio di una percezione del mondo. Batman/Wayne vede il mondo a una dimensione. Non a caso il sole sorge quando la sua visione del mondo si schiarisce.
E quando la macchina da presa lo coglie dall’alto, perpendicolarmente, mentre conduce in salvo quanti rischiano di annegare, guidando gli ultimi con una torcia che dilania il buio, Batman evoca sia il pifferaio magico che un Mosè che divide le acque. Come dire che Bruce Wayne non sa ancora cosa sarà. Reeves, insomma, trova una dialettica nel buio, una danza fra due opposti, che né Nolan né tanto meno Snyder hanno intuito.