«La situazione è molto più grave che in passato. Ma quello che ci spaventa di più è l’isolamento della nostra terra». Kamal è tornato qualche anno fa a Gaza, dopo un lungo periodo trascorso in Italia tra studio e lavoro. A casa ha trovato un buon impiego ma il senso di precarietà che regna nella Striscia di Gaza non lo abbandona mai. Qui nessuno fa piani a lungo termine, si vive giorno per giorno. «Quello che rende più pesante la crisi che stiamo vivendo – aggiunge Kamal – è sapere che non abbiamo l’appoggio dell’Egitto e di altri Paesi arabi. Se Israele dovesse lanciare un nuovo attacco (contro Gaza, ndr), come a novembre 2012, questa volta noi palestinesi saremo soli, abbandonati da tutti». Mentre Kamal parla, a poche decine di metri, sul lungomare, diversi manovali sono impegnati ad asfaltare la strada degli hotel. Altri lavori pubblici sono in corso in vari punti della Striscia, in gran parte finanziati dal Qatar, sponsor regionale del movimento dei Fratelli Musulmani. Ma queste attività non devono indurre in inganno. Ha ragione Kamal. Questa crisi non è come le altre. E’ una crisi che sta mettendo in ginocchio Gaza. Come non accadeva dal 2006-2007, quando Israele diede inizio al blocco della Striscia in risposta alla cattura del soldato Ghilad Shalit e alla presa del potere da parte di Hamas a danno di Fatah e dell’Anp del presidente Abu Mazen.

Appena un anno fa il governo islamista di Ismail Haniyeh era all’apice della sua ascesa politica. Le donazioni del Qatar e il presidente egiziano Mohammed Morsi avevano reso la Striscia una sorta di “Emirato”, riconosciuto e visitato dai regnanti arabi. Tutto è cambiato il 3 luglio 2013, con il golpe militare che in Egitto ha rovesciato Morsi e il governo dei Fratelli Musulmani. Nei mesi successivi le autorità egiziane hanno revocato prima tutti i privilegi per i dirigenti di Hamas, poi hanno chiuso il valico di Rafah infliggendo una punizione collettiva alla popolazione di Gaza. Infine, qualche settimana fa, hanno proclamato “organizzazione terroristica” il movimento islamico palestinese, perchè parte della Fratellanza. «Tutto ciò è assurdo, l’Egitto sta colpendo persone innocenti – ci dice la 24enne portavoce di Hamas, Israa al Mudallah -, il Cairo non deve leggere la situazione di Gaza nel quadro dei suoi problemi con i Fratelli Musulmani. Noi siamo palestinesi, siamo assediati da Israele, viviamo sotto occupazione, l’Egitto non può fare questo alla popolazione di Gaza».

E invece il Cairo non ha esitazioni e usa il pugno di ferro. «In Egitto forse si illudono che Hamas finirà per perdere consenso e crollare – spiega l’analista Saud Abu Ramadan – come andrà a finire non si sa, certo è che si rischia un’esplosione, la popolazione di Gaza è sfinita, frustrata e demoralizzata. Un giorno finirà per prendersela con tutti, non solo con Hamas». A causa del blocco israeliano e delle continue restrizioni egiziane, in pochi mesi le condizioni di vita a Gaza sono precipitate, diventando persino più gravi di quelle che già si conoscevano. «Nessuno sa la percentuale esatta della disoccupazione – dice Abu Radaman – qualcuno parla del 40% altri addirittura del 70%. Di sicuro qui tanta gente mangia solo grazie agli aiuti delle agenzie umanitarie e degli istituti di carità». Dati sconfortanti che si aggiungono ai problemi infrastrutturali che rendono sempre più invivibile la Striscia. A cominciare dalla mancanza d’acqua. Quella che esce dai rubinetti di fatto non è potabile ma la bevono tutti quelli che non possono permettersi di comprare l’acqua in bottiglia, ossia il 99% della popolazione. E se è una buona notizia l’avvio di un progetto dell’Unicef per la desalinizzazione dell’acqua (finanziato con 10 milioni di euro dell’Ue), non si può fare a meno di notare che coprirà i bisogni di appena 75 mila abitanti su 1,7 milioni.

«Il governo di Hamas non sa che fare, è nei guai – ci spiega una nostra fonte ben inserita nel movimento islamico che ha chiesto di rimanere anonima – Non ha più soldi a causa della chiusura egiziana ed è costretto ad alzare tasse su tutto quello che va sul mercato. I suoi 50 mila dipendenti prendono un terzo dello stipendio e spesso neanche quello. Senza contare i 300 milioni di dollari di tasse che ha perduto di colpo per la distruzione da parte dell’Egitto dei tunnel sotterranei (oltre 1.300 tra Gaza e il Sinai, ndr) che garantivano le merci di cui ha bisogno Gaza. Non dimentichiamo che quelle gallerie davano lavoro a migliaia di persone». Il premier Haniyeh e gli altri dirigenti di Hamas sanno che il tempo gioca a loro sfavore e cercano una via d’uscita. «Hanno capito che la politica con i suoi compromessi è l’unica possibilità che hanno – prosegue la nostra fonte – così i nemici cominciano ad apparire meno brutti e cattivi, anzi, diventano persino simpatici, specie se litigano tra di loro».

In sostanza, ci fa capire la nostra fonte, Hamas sta cercando di sfruttare a suo vantaggio, per uscire dall’angolo, la ripresa dello scontro senza esclusione di colpi tra l’ex “uomo forte” di Fatah a Gaza Mohammed Dahlan e il presidente Abu Mazen. Espulso da Fatah e da alcuni anni in esilio dorato a Dubai, Dahlan grazie alla sua ben nota intraprendenza è riuscito a riorganizzare la sua corrente nei Territori occupati, grazie anche a donazioni ricevute negli Emirati. Una novità alla quale Abu Mazen ha risposto tagliando lo stipendio ai sostenitori del suo rivale a Gaza. I due avversari nei giorni scorsi sono usciti allo scoperto, scambiandosi pubblicamente insulti e accuse pesantissime. Abu Mazen lo ha fatto davanti alle telecamere della tv pubblica palestinese. Dahlan ha usato una televisione egiziana. Ma la politica non conosce restrizioni ai compromessi, anche quelli più torbidi. Così Dahlan che, negli anni 90, quando era capo della sicurezza preventiva dell’Anp, aveva arrestato e sbattuto in carcere tutti i leader di Hamas, l’uomo che era accusato di «lavorare per Israele e gli Usa» e che nel 2007 era dovuto fuggire da Gaza inseguito da Ezzedin al Qassam, l’ala armata del movimento islamico, adesso potrebbe diventare lo “strumento” per mettere fine al lungo mandato di Abu Mazen e per ridare ossigeno agli islamisti sotto pressione.

A dicembre i leader di Hamas hanno consentito alla moglie di Dahlan di tornare a Gaza e di distribuire alla popolazione aiuti umanitari e milioni di dollari attraverso l’ong “Takafol”. Quindi Ahmed Yusef, un ex consigliere del premier Haniyeh, ha informalmente incontrato Dahlan negli Emirati. Contatti che andrebbero avanti anche in questi giorni. «Non è vero, non stiamo trattando con Dahlan. Se quell’individuo metterà piede a Gaza sarà arrestato e processato per i crimini che ha commesso», proclama, parecchio irritata, la portavoce di Hamas Israa al Mudallah. Eppure a Gaza circola insistente una voce. L’accordo con il “diavolo” si farà e riguarderà anche la Cisgiordania: Dahlan diventerà presidente con l’appoggio degli islamisti, Hamas guiderà il governo, Abu Mazen andrà in pensione. E il popolare leader dell’Intifada palestinese Marwan Barghouti? Lui marcirà in prigione, ha assicurato qualche giorno fa un ministro israeliano.