Si avvicendano i governi, si rinnovano le amministrazioni, si scompongono e ricompongono maggioranze e opposizioni, ma sono sempre tutti lì ad agitarsi per l’esposizione debitoria dei comuni italiani. Come di consueto, al centro della querelle si ritrova sempre e soltanto Roma, bisognosa di continui rifornimenti finanziari e di appositi decreti. Ma sono tantissime le città, grandi e piccole, che vivono ormai da anni una condizione di bilancio dissestata, le cui conseguenze si scaricano sulla vita quotidiana di cittadini, sempre più disagevole e a volte perfino rischiosa.

Non ci sono più le insegnanti di sostegno per i bambini disabili, gli anziani fragili vengono lasciati al loro triste destino, chiudono i centri antiviolenza, le case famiglia e i luoghi d’accoglienza, il sostegno all’affitto per le famiglie in difficoltà è ormai in via d’estinzione, i progetti educativi e culturali, i percorsi d’integrazione sociale, l’assistenza alle fasce svantaggiate della popolazione sono solo un ricordo. E ancora. Nessuno più esegue lavori di manutenzione nelle scuole e negli edifici pubblici, strade e piazze sono lastricate di buche, i cantieri per le opere pubbliche languono perché i finanziamenti si esauriscono, bus, metropolitane e ferrovie locali arrancano scricchiolanti e spesso si guastano, i teatri chiudono e i musei appassiscono.

È davvero sciocco entusiasmarsi per l’affossamento del decreto SalvaRoma: non solo perché non si considerano le gravose ricadute sociali su una città che è pur sempre la più popolosa d’Italia, ma soprattutto perché non si coglie l’assoluta insostenibilità della condizione debitoria, del comune di Roma come di migliaia di altre amministrazioni locali. Non si può continuare a girarci attorno, reiterando decreti o abbandonandosi a grotteschi ostruzionismi regolamentari. Né appare dignitoso che una volta all’anno il sindaco della capitale, oggi Marino, ieri Alemanno, sia costretto a bussare alle porte del governo con il cappello in mano.

I vincoli finanziari sugli enti locali che derivano dal patto di stabilità, a Genova come a Napoli, a Roma come dappertutto, stanno strangolando non i sindaci o le giunte ma la condizione materiale delle persone. E anche laddove arrivino risorse aggiuntive per compensare bilanci sempre più esangui, non è raro che tali risorse finiscano direttamente negli istituti bancari: per pagare non il debito ma di quel debito i soli interessi. C’è da chiedersi se le cose possano proseguire in tal modo. Se si debba assistere a questa ricorrente manfrina che non risolve alcunché, e che invece cronicizza disagi e sofferenze, per poi favorire la sola intermediazione finanziaria.
I Comuni andrebbero sollevati dai propri debiti e rimessi finalmente in condizione di esercitare la loro primaria funzione, quella di amministrare. E perché ciò succeda è necessario che i sindaci si rifiutino di subire quest’umiliante subordinazione al ricatto finanziario. Dovrebbero scardinare le gabbie in cui li hanno rinchiusi e ribellarsi. Lo facciano: a piedi o in bicicletta non fa differenza.