Louder than Bombs , Più forte delle bombe, era il titolo originale del film di Joachim Trier (presentato lo scorso anno in concorso a Cannes) che in Italia arriva come Segreti di famiglia, suggestione assai più rivelatoria di ciò che Joachim Trier, al suo terzo lungometraggio, racconta. Difatti anche se il personaggio intorno al quale ruotano tutte le storie dei protagonisti, Isabelle Huppert, è una fotografa di guerra, i reportage che l’hanno resa celebre nel mondo così come il suo rapporto con le immagini rimangono, a parte qualche accenno, nel fuoricampo. Cosa c’è dentro è invece la condizione sentimentale di chi le è stato accanto, il marito (Gabriel Byrne) e i due figli, uno ormai cresciuto e da poco padre (Jessie Eisenberg), rampante accademico di giovane età, l’altro adolescente burrascoso che vive nella realtà parallela dei videogiochi, balla da solo sulle note di vecchi pezzi dance, scrive del mondo intorno a sé con l’ispirazione di un Ginsberg adolescente.

 
Lei, madre adorata e moglie conflittuale nel frattempo è scomparsa, morta non «eroicamente» (sembra quasi che se ne dispiacciano) sul campo ma in un banale incidente d’auto vicino a casa, un lutto che i tre uomini hanno cercato di «elaborare» ciascuno per sé, in solitudine come accade spesso nelle famiglie. Ma una mostra dedicata al suo lavoro li costringe a riaprire le scatole che la donna ha lasciato dietro di sé nella sua camera oscura, e a cercare tra i negativi i «segreti» coperti sulla sua morte e nelle loro vite.

 
Anche se tra padri e figli c’è molto più in comune di quanto pensino, una certa propensione all’ipocrisia emotiva, per esempio, e l’idea, che sembra fortemente appartenere al regista che in fondo la madre, figura in assenza anche quando era in vita, sia un po’ la responsabile delle loro sventure. Il padre che non riesce a vivere un’altra storia d’amore, il figlio maggiore che ha appena avuto una bambina ma pensa solo a scappare via, finendo a letto con la ex dopo avere «condannato» per intenerirla la moglie al cancro. Forse il piccolo considerato «eccentrico» è quello che sfugge allo schema, pure se ingabbiato narrativamente in quello dell’adolescente rabbioso di cui deve ricalcare ogni turbamento.

 
Segreti di famiglia è anche il primo film di Trier girato in inglese, negli Stati uniti, e con attori molto noti. L’America che il regista norvegese sceglie è quella di una «periferia» benestante di adolescenti sbronzi alle feste, riti crudeli del college, casette con prato e bandiera in giardino in fondo ben sintonizzati a quel nodo di silenzi, rancori, bugie che stringe i tre protagonisti dai quali la madre cercava la fuga. O forse semplicemente si costringeva all’inadeguatezza. La vediamo remota, enigmatica, nei frammenti dei ricordi dei tre, forse è ancora il più giovane che arriva più vicino alle cose, lui che la disegnava svolazzante nel deserto dopo un attentato che l’aveva quasi uccisa.

 

 

Trier nonostante la caratterizzazione della figura di Huppert – che si chiama anche nel film Isabelle – rifiuta l’idea di un film «a tema», che ragioni sulla sua professione, dunque il giornalismo, l’informazione e il suo rapporto con le immagini, con quanto documenta oggi, in anni embedded». E nemmeno cerca di entrare nel disorientamento personale, nella confusione del contemporaneo. La fotografa e la sua solitudine si confondono con la figura materna, i disagi adolescenziali, la paura di crescere, la nevrosi maschile. Tutto però scivola in un flusso, nelle immagini fin troppo eleganti, da sfiorare l’accademismo, che procedono per accumulo e non conoscono sorprese né tantomeno permettono l’irruzione di una qualsiasi stravaganza. La fatica di vivere somiglia a un catalogo di narrativo, e la bomba così forte non esplode mai.