Jehoshua ben-Josef, nato da Myriam presso Betlemme di Giudea durante il primo censimento del governatore della Siria, residente a Nazaret di Galilea, «poi senza fissa dimora», di professione carpentiere e, in seguito, «rabbì ambulante e guaritore». È la carta d’identità stilata da Gianfranco Ravasi in Biografia di Gesù Secondo i Vangeli (Raffaello Cortina Editore «Scienza e Idee», pp. 252, € 19,00), saggio che intende valutare la figura di Gesù «sul crinale tra fede e storia», senza scivolare nelle recrudescenze del metodo storico-critico e, al contempo, senza abbandonarsi alle astrattezze mituali.

Come ha affermato Marie-Joseph Lagrange, «i Vangeli sono la sola vita di Gesù Cristo possibile a scrivere, purché si riesca a ben comprenderla»: Ravasi fa sua questa lezione, tenendo però sempre ferma la consapevolezza ratzingeriana secondo la quale la ricostruzione documentaria è «una delle dimensioni fondamentali dell’esegesi, ma non esaurisce il compito dell’interpretazione per chi nei testi biblici vede l’unica Sacra Scrittura e la crede ispirata da Dio» (Gesù di Nazaret, 2007).

Infatti, la «qualità specifica» dei Vangeli, come il bilanciamento statico su un piano d’inclinazione, va collocata «in un punto di equilibrio delicato»: «Da un lato, bisogna evitare – sottolinea Ravasi – la Scilla del mito o della pura e semplice teologia, quasi fossero trattati speculativi; dall’altro bisogna schivare la Cariddi della storicità assoluta, quasi fossero da ricondurre al genere dei manuali di storiografia o delle biografie scientifiche».

Ciò detto, il côté concernente la Palestina del I secolo d.C. è molto interessante e l’autore offre un ampio spettro d’osservazione che va dalla ricerca di attestazioni extra Evangelium, ossia imperiali (la lettera X, 96 di Plinio il Giovane, il passo degli Annales di Tacito, Svetonio nella biografia dedicata a Claudio etc.) e giudaiche (il notissimo Testimonium Flavianum, un paragrafo del Talmud babilonese, l’esile frammento papiraceo 7Q5 della settima grotta di Qumran), fino alla constatazione del Vangelo come «documento primario per risalire alla storia di Gesù».

Qui agiscono i cosiddetti «criteri di storicità», ridotti da Ravasi, con suprema capacità di sintesi, a due verifiche di natura antitetica ma complementare: il criterio di discontinuità e il criterio di continuità.

Partiamo dal primo. «Sono da ritenersi storicamente autentici i dati del Vangelo irriducibili alle concezioni del giudaismo e a quelle posteriori della Chiesa». Vale a dire: quando peschiamo elementi particolarmente «originali», è molto probabile che siano veridici a tutti gli effetti. Un esempio? La parola aramaica abba’, «un vezzeggiativo affine al nostro papà», utilizzato in Marco 14,36 e rivolto da Gesù nei confronti di Dio Padre. Lo studioso tedesco Joachim Jeremias commenta a tal proposito: «Siamo di fronte a qualcosa di nuovo e di inaudito che varca i limiti del giudaismo». E Ravasi rincara la dose: «Abba’ è uno degli ipsissima verba Jesu, cioè una delle “stessissime parole” pronunciate dal Gesù storico», perché alcun redattore o discepolo avrebbe potuto immaginare sua sponte nulla di simile.

Di difformità, del resto, ce ne sono tantissime: l’elezione dei seguaci da parte del maestro ebreo contraria all’uso del tempo, la libertà nei confronti delle leggi rituali di purità, la giovinezza nazarena (da Nazaret «non può venire nulla di buono», Giovanni 1,46), i ritratti poco lusinghieri degli apostoli presentati – e in un certo modo autopresentatisi – come «ottusi, esitanti, codardi e persino traditori». E ancora: «La scena del battesimo al Giordano, in cui Gesù appare in mezzo ai peccatori, per partecipare a un rito per la remissione dei peccati e in subordine a Giovanni Battista, come poteva essere “inventata” dai primi cristiani che proprio allora cominciavano a polemizzare con alcune sette “battiste” che consideravano Giovanni come il vero Messia? Come si sarebbe escogitata una fine così ingloriosa, con il “supplizio degli schiavi”, secondo la definizione della crocifissione coniata dallo storico romano Tacito, se ciò non fosse stato nella cruda realtà dei fatti?».

La «traiettoria opposta» è nel criterio di continuità, che recita: «È da considerare autentico un detto o un gesto di Gesù qualora esso sia in stretta conformità non solo con l’epoca o l’ambiente linguistico, geografico, politico, sociale e culturale dello stesso Gesù, ma sia anche intimamente coerente con il suo insegnamento e con l’immagine generale».

Lo sfondo topografico e civile del I secolo che emerge nelle scritture di Marco, Matteo, Luca e Giovanni è rappresentato in maniera abbastanza credibile «senza anacronismi eccessivi e sospetti». Le tipiche modalità di comunicazione rabbinica sono, inoltre, riscontrabili nei discorsi di Gesù, il quale spesso ricorre alla tecnica del parallelismo («Ogni albero buono produce frutti buoni. Ogni albero cattivo produce frutti cattivi. Un albero buono non può produrre frutti cattivi. Un albero cattivo non può produrre frutti buoni» Matteo 7,17-18) e alle affermazioni paradossali, gli adynata («È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei cieli» Mt 19,24).

L’esistenza concreta di Gesù era già siglata nel kérygma, l’annuncio fornito da Paolo ai Corinzi (15,3-5): «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve (…)». In questo Credo antico si fissano inequivocabilmente i lineamenti fondamentali di un uomo «morto crocifisso sotto il procuratore romano di Giudea Ponzio Pilato intorno agli anni Trenta del I secolo, sepolto dopo una vita contrassegnata da sorprendenti atti e messaggi», ai quali si intrecciano «una serie di eventi trascendenti (miracoli, risurrezione, apparizioni)».

La costituzione primaria dei Vangeli nasce sulla scorta di lógoi, di approfondimenti e catechesi attorno ai pochi ma cogenti episodi essenziali. Lo stesso «genere letterario» dell’euanghélion è «unico», lontano da insidie rigoriste di avvenimenti puramente materiali. «I dati reali storici – prosegue Ravasi – vengono infatti interpretati e compresi nel loro significato più profondo. E la luce che riesce a perforare la superficie dei fatti di Gesù per coglierne il valore di rivelazione e di salvezza è la Pasqua di Cristo, un evento che ha lasciato dietro di sé tracce storiche ma che appartiene a un altro piano, oltre la storia».

Con esemplare chiarezza Ravasi racconta in successione la struttura e le peculiarità del primo evangelista Marco (di «lingua povera ma vivace»: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra sarebbe in grado di sbiancarle così» Mc 9,3), del più popolare Matteo (amante del simbolismo numerico: «Il Padre Nostro ha 7 domande; 7 sono le parabole del discorso del capitolo 13; 7 sono i “guai” contro gli scribi e i farisei; 7 i demoni che ritornano ad attaccare l’uomo; 7 i pani moltiplicati e 7 le ceste avanzate»), del più raffinato Luca (cantore degli ‘anawîm, i «poveri del Signore», ovvero Maria, Zaccaria, Elisabetta, Giuseppe, Simeone, la profetessa Anna, i pastori in attesa della «consolazione» e della «redenzione» di Gerusalemme, Lc 2,25-38), dell’ultimo Giovanni (diviso idealmente tra il testimone oculare e l’evangelista-scrittore, «teologo di alto profilo», che raccoglierà la tradizione modulata sulle memorie del «discepolo amato»).

Ai capitoli legati dal filo diegetico della vicenda terrena di Gesù si aggiungono schede tematiche che riguardano l’infanzia – il cui nucleo biografico è affidato «a tradizioni familiari del clan di Maria» –, le parole pronunciate, persino le mani (si pensi ai miracoli analizzati da Ravasi ancora sotto la lente del criterio di discontinuità: «I suoi stessi avversari non contestano la sua attività taumaturgica quanto piuttosto l’autorità che egli rivendica»; «i Vangeli canonici ci riferiscono miracoli sobri, destinati soltanto a far del bene a persone sofferenti e compiuti esclusivamente in un contesto religioso e non di spettacolo o magia»), il processo e la condanna, la risurrezione e i Vangeli apocrifi. Tutto purché con François Mauriac si riconosca «non un sentimento, una passione, ma una persona, qualcuno. Un uomo? Appunto, un uomo, Dio. Lui che è qui».