Il senato è ancora lontano dal concludere la discussione generale sulla nuova legge elettorale, gli interventi si susseguono in un’aula semivuota e sono quasi tutti (27 su 29) contrari all’Italicum, anche quando prendono la parola senatori della maggioranza (Pd e Forza Italia). Poi, alle otto di sera, arrivano gli emendamenti concordati dal «patto del Nazareno» e la legge si prepara a cambiare. C’è la «clausola di salvaguardia» con la quale Renzi giura che non utilizzerà la nuova legge per elezioni anticipate prima del 1 luglio 2016 (ovviamente non si voterà in piena estate, la tecnica è quella dei commercianti che vendono a nove euro e 99 e non dieci).
Gli altri emendamenti discussi dal Pd con Forza Italia (anche se i berlusconiani ne hanno firmato solo uno) prevedono come previsto l’innalzamento della soglia per avere diritto al premio di maggioranza (dal 37 al 40%) assegnato alla lista e non alla coalizione, lo sbarramento abbassato per tutti al 3%, una norma per limitare il fenomeno (detto «flipper») che affida un po’ al caso l’assegnazione dei seggi (ripartiti nazionalmente) e la delega al governo (ad Alfano) per ridisegnare a piacimento i cento nuovi collegi.
Non sono emendamenti del governo dunque per il regolamento del senato non sono sub-emendabili. Nel caso fossero posti in votazione per primi, farebbero decadere tutte le proposte delle opposizioni. È un vantaggio che il «patto del Nazareno» si è regalato mandando in aula la legge senza relatore. Grasso, rispondendo alle preoccupazioni preventive di Sel e 5 stelle (ma anche della minoranza Pd) ha assicurato prudenza. Ma è lo stesso Grasso che ha introdotto il «canguro» per le riforme costituzionali (e che da oggi lascerà la conduzione d’aula ai vice presidenti). Calderoli, più per il gusto della sfida sulle procedure che per reali esigenze di mediazione, ha calato la sua classica valanga di emendamenti ostruzionistici: 40mila, tutti da stampare e distribuire in copia.

Nel frattempo alla camera le votazioni sul disegno di legge di revisione costituzionale sono andate avanti da mattina a sera. Lentamente: non è stata ancora esaminata la metà degli emendamenti al solo articolo 1 (in totale gli articoli sono 41). Con questi ritmi è assai difficile che si riesca a chiudere entro il 28 gennaio, in tempo per la convocazione del parlamento per l’elezione del presidente della Repubblica. Il fascicolo d’aula che riporta tutte le proposte di modifica al ddl costituzionale è di 648 pagine, ieri sera i deputati si sono fermati ancora a pagina 49. Se il Pd vorrà forzare dovrà far calare la mannaia dell’esaurimento dei tempi; le opposizioni ci arriveranno presto, mentre democratici, centristi e (un po’ meno) Forza Italia sono rimasti praticamente silenziosi, se non quando sono caduti nelle provocazioni dei 5 stelle. Confermato che il governo accetterà di alzare il quorum per la dichiarazione dello stato di guerra, ma la nuova richiesta che le opposizioni si preparano a presentare è assai più impegnativa: potrebbero chiedere di fermare i lavori sulle riforme fino all’elezione del successore di Napolitano. Alla presidente Boldrini sarà fatto presente che in prossimità di un passaggio così impegnativo le aule non possono dedicarsi serenamente alla riscrittura della costituzione né della legge elettorale (il presidente Grasso lascerà palazzo Madama per supplire la prima carica dello stato). Assai probabile che la risposta sarà negativa, ma la discussione e la votazione della modifica al calendario, così come probabili interventi sulle dimissioni del presidente, fanno parte delle tecniche di ostruzionismo perché consumano minuti o ore extra rispetto ai tempi contingentati. E sempre ieri, ma fuori dal palazzo, una lunga lista di costituzionalisti tra i più autorevoli riuniti nei comitati Dossetti per la Costituzione hanno chiesto anche loro di rinviare le riforme: «Si giunga invece in tempi ravvicinati a nuove elezioni politiche sulla base di un sistema proporzionale senza premi di maggioranza, sia pure con una ragionevole soglia di accesso». Tra le firme giuristi dichiaratamente critici con il disegno di legge governativo (Carlassare, Ferrajoli, Azzariti, Villone), ma anche costituzionalisti che avevano «aperto» al processo di revisione costituzionale in corso (Onida, Allegretti).