Quale ruolo, in questo momento della vita del paese, può giocare la società civile all’interno di una delle sfide più importanti, forse la più importante, nella storia della Repubblica? Ma, prima ancora, che cos’è la società civile?

Sono le Ong che salvano uno scalcinato battello in mezzo al Mediterraneo colmo di immigrati provenienti dall’Africa; è una grande manifestazione a Roma, capeggiata da una formidabile Greta Thunberg che accusa i politici radunati al Senato di averla ascoltata e applaudita per poi non fare assolutamente nulla; è anche Libertà e Giustizia, una piccola associazione che ha sempre difeso la Costituzione lavorando nelle scuole per diffondere la conoscenza della Carta Costituzionale.

Ci sono varie trappole terminologiche da evitare, tra cui la più ovvia sta nel fatto che si può fare del termine un uso così ampio da renderlo insignificante, o così limitato da includervi solo il politicamente corretto. Un primo livello è la visione della società civile come spazio analitico, il secondo come pratica associativa, il terzo come una serie di linee guida normative.

Come spazio analitico, la società civile costituisce una vasta area intermedia, separata dalla sfera domestica, da quella economica e dallo stato. La società civile si collega alle famiglie, ai mercati e ai governi ma rimane un’entità distinta. A questo primo livello di analisi, sembra difficile distinguere la società civile da quella che è comunemente chiamata «società». Ma il secondo livello della definizione specifica immediatamente che la «società civile» non è la società genericamente intesa, ma una pratica associativa caratterizzata da una grande varietà di gruppi di volontariato, organizzazioni, circoli, reti di solidarietà e via discorrendo. Il terzo, e il più controverso, livello della mia definizione, quello normativo, definisce ancora di più il campo e ci porta vicino all’uso più comune e diffuso che si fa di questa parola nella politica italiana di oggi. Il termine «società civile» ha sempre avuto una forte connotazione normativa, sebbene essa abbia cambiato di volta in volta nel tempo la sua natura.

Vorrei suggerire che la società civile italiana di oggi nutre le seguenti ambizioni riguardo la condizione generale della democrazia moderna: difendere e applicare gli articoli della Costituzione del 1948, incoraggiare la diffusione del potere rispetto alla sua concentrazione, considerare il cambiamento climatico come un’emergenza globale, usare mezzi pacifici invece della violenza, lavorare per l’uguaglianza sociale e di genere, promuovere la tolleranza e l’inclusione, stimolare il dibattito e incoraggiare un uso diverso delle passioni nell’azione politica.

L’esperienza storica italiana della società civile nel periodo repubblicano è piuttosto eterogenea. Alcuni elementi sono fortemente positivi. In Italia la longevità democratica della Repubblica – fattore raramente preso sufficientemente in considerazione dai politologi italiani – ha garantito le condizioni strutturali per il fiorire della società civile – la libertà di opinione, la stampa libera, il diritto di associazione. L’Italia è un paese in cui il funzionamento delle istituzioni lascia molto a desiderare, ma è anche un paese, sotto il profilo storico, molto libero, perfino iperdemocratico, ricco di iniziative e discussioni. Forse – ed è una triste constatazione – è proprio il mancato funzionamento delle istituzioni a produrre questa vivacità di reazione, questa micro-democrazia che non dà segno di placarsi.

Per larga parte della sua storia lo stato italiano si è trovato davanti una società civile debole e inefficace, con pochi elementi di partecipazione e di democraticità, specialmente nel Sud e nelle Isole. Questa situazione, però, è mutata rapidamente negli ultimi trent’anni. Per la crescita ininterrotta di un ceto medio istruito e relativamente prosperoso. E per l’emergere di figure nella sfera pubblica profondamente ostili alla democrazia liberale e pronte a mettere le mani su di essa fino a stravolgerla (Berlusconi, poi Renzi e per ultimo è arrivato il sinistro Capitano Salvini). Se nel 2002 la reazione della società civile a Berlusconi fu massiccia, la reazione a Renzi, il populista di sinistra, è stata molto più complessa e parziale.

Queste nuove figure e l’andamento dell’economia mondiale dopo la grande crisi del 2008, stanno provocando una nuova mobilitazione – quella di una classe media stavolta impoverita, i cui figli sono colpiti da un processo di mobilità discendente. Il loro tanto lavoro per poca retribuzione gli impedisce di partecipare costantemente alle campagne della società civile, ma all’orizzonte vediamo avvicinarsi una società civile verde (almeno in Germania e il Regno Unito, se non in Italia).

Siamo oggi di fronte una società civile italiana matura? Lo dubito fortemente. Passività e individualismo, differenze generazionali, triste e frustrante rapporto con i partiti di centrosinistra segnano una difficoltà. Prima di tutto si deve sottolineare che la società civile tende a una micro-conflittualità ripetitiva permanente. Nell’assenza di regole chiare e della necessità di un diverso comportamento, nella società civile rispetto alla politica, è assai facile per alcuni individui assumere il ruolo di figure carismatiche o simili, prendendo il controllo delle organizzazioni e ponendosi al di sopra di ogni critica. Inoltre si deve osservare che la relazione tra passione e politica spesso assume forme negative. L’autocontrollo, l’autodisciplina, l’umiltà, l’immaginazione e lo scetticismo, così essenziali alla società civile, troppo spesso mancano; retorica, dogmatismo, gelosia e recriminazione sono invece molto presenti. Per costruire una società civile che sappia abilmente adoperare un modo diverso di fare la politica, ci vogliono le pratiche costanti delle passioni positive , ci vuole grande pazienza e tenacia, oltre a una solida cultura della democrazia. Spesso, almeno per ora, una o più di queste qualità mancano.
*Presidente di Libertà e Giustizia