Nella prima metà dell’Ottocento la città di Besançon, capoluogo dell’attuale Borgogna-Franca Contea, rifornisce di cereali tutta la Francia orientale. L’architetto Pierre Marnotte, esperto di antichità classiche, viene incaricato di creare il magazzino del grano. Realizzata su due piani, la squadrata cornice neoclassica dell’edificio deve culminare al centro con una cupola, come per il magazzino del grano di Parigi. Ma la crisi economica dovuta allo spostamento dei mercati e lo sforzo richiesto dalla costruzione della cupola fa decadere il progetto finale. Nel 1843 il magazzino di Marnotte cambia destinazione d’uso, e viene utilizzato nel piano nobile come luogo espositivo. Vi sono allocati inoltre reperti antichi regionali dalla preistoria all’età romana: così il museo si configura anche come interessante ricettacolo di resti archeologici. Da allora il Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie di Besançon ha conosciuto una crescita esponenziale di donazioni di pregevolissime opere d’arte.
Un’ulteriore svolta per l’edificio, dalle sconvolgenti conseguenze percettive in chiave modernista , avviene nel 1963. Allora la coppia di collezionisti Adèle e George Besson (editori e membri del partito comunista) donano allo Stato francese più di trecento opere d’età moderna, molte delle quali destinate a Besançon. Bisogna ripensare gli interni del museo, e non potendo contare su Le Corbusier, viene scelto un suo assistente di origini algerine, Louis Miquel, il quale introduce un’avanguardistica «spirale quadrata» dove le pareti di cemento nudo comunicano col vecchio edificio neoclassico mediante passerelle. Il nuovo museo, inaugurato nel 1970, ha poi subito il definitivo attuale assetto (inaugurazione recente, dopo sette anni di lavori) con l’architetto e scenografo bisontino di origini italiane Adelfo Scaranello. Dialogando con il piano orizzontale di Marnotte e le passeggiate verticali di Miquel, Scaranello alleggerisce la struttura mettendola a nudo con un sapiente uso di trasparenze e nuove aperture alla luce, e ripensa l’allestimento delle opere, pur tuttavia non sempre di facile lettura sia per la sincope creata dal cemento bruto che per la disposizione fuori fuoco di molti dipinti.
I quasi quattromila metri quadrati di spazio accessibile sono divisi in 38 sezioni tematiche che cercano di dare conto delle diverse epoche e delle collezioni, tenendo ferme e ben valorizzate le punte di diamante del museo. Come Il trionfo di Nettuno, decorazione musiva di un pavimento del II secolo d.C. – rinvenuto in una domus bisontina – dalla peculiare iconografia (unica nel mondo romano) del dio delle acque sospinto da cavalli terrestri, invece che marini; il magnifico Compianto sul Cristo morto (1545) di Agnolo Bronzino, arrivato a Besançon come dono dei Medici a Nicolas de Granvelle, Guardasigilli di Carlo V; L’Hallali del cervo (1867) di Gustave Courbet, nativo della Franca Contea, che ritrae in una scena di caccia dalle dimensioni monumentali un cervo agonizzante come un eroe romano colpito a morte nella neve.
Il museo di Besançon vanta la prima collezione privata presentata in pubblico, quella che l’abate Jean-Baptiste Boisot nel 1694 lascia in eredità alla comunità benedettina della città, a condizione che le opere (undici dipinti e quattro busti in totale) fossero esposte in un luogo specifico aperto a tutti almeno due volte a settimana. Rimpinguata dagli espropri rivoluzionari, la collezione aumenta con la donazione dell’architetto Pierre-Adrien Pâris nel 1819, con un fondo importante di disegni e dipinti, tra gli altri di Boucher e Fragonard.
Ma per comprendere lo straordinario spessore della collezione museale non si può prescindere dai 460 dipinti e 3000 disegni donati dal pittore Jean Gigoux nel 1894. Bastano, per farcene un’idea, L’ebrezza di Noé (1515), riconosciuto da Adolfo Venturi e Roberto Longhi quale capolavoro di Giovanni Bellini maturo, che nell’ultima fase si avvicina al genio del suo ormai defunto allievo Giorgione; il severo rinascimento nordico degli Adamo ed Eva di Lucas Cranach; o i visionari Cannibali di Goya. Infine la sezione moderna è ampiamente coperta dalla collezione dei succitati coniugi Besson, con 112 dipinti e 221 disegni e stampe, fra i quali un Renoir che accarezza e ovatta il volto di Adèle e un Matisse che sfregia in grigio quello di George; una vela veneziana di Signac e un fuori formato di Bonnard che trasfigura la commedia umana parigina in La Place Clichy.
Il sito museale ha inoltre inteso dedicare ampi spazi a mostre temporanee. Quelle attuali hanno il coraggio e il merito di offrire al pubblico due scultori sconosciuti ai più: l’ottocentesco bisontino Just Becquet (1829-1907), in mostra con una retrospettiva dal titolo Le geste sûr fino al 6 ottobre; e il contemporaneo Vincent Barré, classe 1948, che propone L’origine est proche fino al 14 ottobre.
Nell’introdurci la figura di Just Becquet, il curatore Michaël Zito dice che «raramente tratta un soggetto perché è suscettibile di attrarre acquirenti. Le sue scelte sono determinate sia per il suo interesse per un dominio particolare, sia per necessità interiore». In effetti è la musica il lavoro alimentare di Becquet, che lo vede violoncellista a Parigi nell’orchestra dell’Odéon e poi nella Comédie-Française. Alla scultura vi arriva per tramite del suo maestro e amico, il digionese François Rude, con cui condivide non solo l’impeccabilità d’esecuzione ma anche l’indipendenza critica. A osservare questa variegata sequenza di opere ci si accorge che la ricerca dello scultore, che va dalle composte pose classiche di Joseph en Égypte a quelle più espressivamente drammatiche de L’Abîme, non ha mai teso a uno stile personale e riconoscibile, quanto piuttosto al preciso raggiungimento di uno scopo tematico. La peculiarità di Becquet sta proprio nell’inesauribile ricerca individuale che non si contenta di un’arte che vuole fare scuola.
Nell’enciclopedica collezione di Besançon il contemporaneo viene concepito come epifania del presente nel passato. E così è concepita in parte anche la mostra di Vincent Barré. Il curatore nonché direttore del museo Nicolas Surlapierre, nel sottolineare la propensione al frammento nell’opera di Barré, sostiene che il tempo «sembra voler uscire dai suoi cardini per risorgere come parte inconoscibile del passato». Attraverso la torsione dei bronzi e la tensione cui sottopone i suoi materiali, l’artista testimonia del «bisogno di toccare il fondo delle epoche, ciò che è all’origine della dimensione bruta della materia, della visione, della presa di possesso». Il frammento di matrice informale qui è forgiato in modo prossimo all’archetipo. Ma astrazioni cariche di movimenti interni lasciano sfuggire il significato netto per restare sospese in una visione nostalgica dell’intero. I gres combusti, le sezioni di acciaio e le filiformi composizioni a intreccio di Barré rimandano a un mondo mitico, ieratico, solitario. E il dialogo coi reperti antichi del museo è altamente risonante. Anche qui Barré nei suoi anni di studio ha forgiato il suo occhio. Un occhio al servizio della materia e della mano. Prossimo all’origine, appunto.