C’è qualcosa di speciale nel cinema di Elia Suleiman che comincia in quella capacità di inventare nelle proprie immagini una forma espressiva sintonizzata a una condizione esistenziale in cui la rabbia soffocante dell’immobilismo (politico, sociale) si manifesta sempre nella lente dell’ironia, nell’umorismo disperato e silente di paradossi e violenze. Forse tutto parte dalla sua biografia, dalla nascita a Nazareth, nel 1960; arabo in territorio israeliano, cristiano tra i musulmani, lascia presto il suo paese, vive a Londra e poi a New York anche se la Palestina è il punto di partenza e il riferimento di tutta la sua opera che non cade mai però nella trappola – spesso tesa agli artisti che provengono da realtà «difficili» – dell’«iconografia del conflitto». Nei suoi film lo stereotipo dell’immaginario palestinese – quello da vendere sui mercati internazionali – non esiste, anzi, viene polverizzato, cancellato, sin dal primo film, Cronaca di una scomparsa (1996) destabilizzando anche chi – in occidente come in oriente – vi si crogiola come marchio identitario. Non ci sono «buoni» e «cattivi» nelle sue storie ma c’è invece il desiderio di una prima persona consapevole, di una libertà – nell’immaginario e dunque nella realtà – di essere palestinese e di raccontarsi utilizzando il proprio linguaggio, una «prima persona» che non deve compiacere nessuno.

IL PARADISO  probabilmente – menzione speciale della giuria allo scorso Festival di Cannes – da oggi in sala, è il ritorno del regista dopo dieci anni – l’ultimo suo lavoro era stato Il tempo che rimane (2009) – ed è un grande film, in cui come raramente capita gli interrogativi del nostro tempo trovano una espressione visibile. Diviso in tre capitoli, ripropone il suo personaggio, da lui interpretato,  ES, un doppio lunare, di ispirazione busterkeatoniana che osserva quanto gli accade intorno, espone i suoi sentimenti e nelle inquadrature frontali, che guardano al cinema muto, li trasforma in frammenti di realtà avventurandosi tra le contraddizioni del suo Paese e quelle del mondo.

Il paradiso probabilmente comincia con un vescovo che urla alla porta chiusa: «se non aprite vi massacro!» per poi sfondare a calci la porticina nel retro e riprendere, come se nulla fosse accaduto, la processione. Siamo a Nazareth, la città dove il regista è nato, ES, elegante dietro a un bicchiere di arak osserva quanto gli accade intorno. Le sue giornate sono scandite da piccoli riti, innaffiare la pianta, gli incontri col vicino che ha sempre stravaganti cose da narrare, fuori dal giardino di casa dove fioriscono i limoni le persone gli appaiono assurde, una miscela di aggressività, indifferenza, prevaricazione. L’aria è pesante, piena di minacce , ma se la Palestina è un inferno da qualche parte ci sarà il paradiso?

COSÌ ES vola a Parigi – sopraffatto dall’ansia dell’aereo. Dal tavolino del bar la città si rivela un’ epifania fantastica, una sfilata di ragazze bellissime e eleganti, i cenacoli filosofici. Ma non è più la Parigi di un tempo, al mattino quel panorama di sogno muta e appare all’improvviso estraneo: nelle strade deserte camminano solo i poliziotti, qualcuno fugge, l’ossessione per la sicurezza domina, la fila alle mense dei poveri si ingrossa, un homeless geme sul suo materasso sporco, forse non basta il vassoio della colazione a aiutarlo. E la sfilata del 14 luglio è diventata quasi una parata militare.

ES CONTINUA il suo viaggio – che si avvicina alla biografia del regista – destinazione New York. Pensava finalmente di sentirsi a casa e invece anche lì, tra i grattacieli dell’America trumpiana riaffiora il sentimento liberista ossessionato dalla sicurezza che domina la Palestina da cui fugge. E se il paradiso fosse invece il suo giardino a Nazareth profumato di limoni?

La Palestina come microcosmo del mondo degli altri film diviene qui il mondo come microcosmo della Palestina, uno spostamento di prospettiva che rende il film una lente precisissima con cui restituire il contemporaneo. La scommessa delle suo immagini è ancora una volta quella del punto di vista, perché è sempre questione di come guardare, di cosa illuminare. Dunque: in che modo mettere in gioco il gesto di filmare rispetto a quelle che sono le domande poste dal presente? Suleiman lascia fuori campo le generalizzazioni, i discorsi «tematici» o l’attualità per concentrarsi sui dettagli da uomo e da artista libero. È il suo sguardo che costruisce il sentimento del presente, che ci mostra quella dimensione globale di ordine, telecamere di sorveglianza, check-point, polizia, miseria in cui occidente e oriente, nord e sud appaiono allo stesso punto: laboratori di fascismo quotidiano. Quanti muri ci sono oggi ovunque così invisibili, così radicati da essere persino più forti di quelli «fisici»?

La regia elimina gli involucri, mira all’essenza, dosa umorismo – si ride molto guardando questo film – e autofinzione, cambia le prospettive, unisce malinconia (molta) e spiragli di speranza. Non c’è bisogno di parole, sono le immagini che raccontano, è la poesia di un pensiero che ai dogmi e alle imposizioni predilige la meraviglia di un cinema mai rivolto a sé stesso.