Il Muro israeliano in Cisgiordania e intorno a Gerusalemme Est è conosciuto con nomi diversi. È una «Barriera di sicurezza» per Israele, un «Muro dell’apartheid» per i palestinesi e gli attivisti internazionali. Ora occorre chiamarlo anche «Muro della demografia». L’altro giorno il primo ministro Netanyahu ha riferito che intende valutare la revoca della residenza a Gerusalemme a quei palestinesi, circa 80.000, che pur vivendo nei confini municipali della città hanno le loro case alle spalle del Muro, ossia sul versante cisgiordano. Un annuncio che dimostra una volta di più che la finalità principale della barriera non è garantire la sicurezza e impedire attentati, come affermano da 13 anni le autorità israeliane, bensì quella di raggiungere obiettivi politici, demografici e territoriali. Si punta in questo caso a realizzare una Gerusalemme Est, la zona araba occupata nel 1967, sotto il controllo totale di Israele ma con un numero sensibilmente ridotto di abitanti palestinesi (ora circa 300mila).

Le aree che più di altre potrebbero essere interessate dalle conseguenze del «Muro della demografia» sono il campo profughi di Shuafat e il sobborgo di Kufr Aqab a nord e a est di Gerusalemme. Sono a rischio però altri villaggi-quartieri arabi a sud della città, come Jabel Mukaber, Sur Baher e Umm Tuba. Pur non trovandosi oltre la barriera di cemento, potrebbero un giorno avere davanti segmenti di cemento armato alti diversi metri come è accaduto, ad esempio, al sobborgo di Abu Dis che dista un paio di chilometri dal centro di Gerusalemme. Jabel al Mukaber da tre settimane è sulle prime pagine dei giornali dipinto come la «base di lancio» della «Intifada dei coltelli» e la scorsa settimana la polizia aveva eretto una «barriera temporanea» per separarlo dalla colonia ebraica (quartiere per gli israeliani) di Armon HaNetsiv. Barriera subito rimossa per le proteste della destra ultranazionalista timorosa che le misure di sicurezza decise dal primo ministro finiscano per confermare quello che è già davanti agli occhi di tutti: nonostante l’annessione unilaterale a Israele del settore orientale, Gerusalemme era è resta una città divisa.

Il caso di Shuaffat e di Kufr Aqab è diverso perchè davanti a questi due centri abitati il Muro non è stato eretto per caso. Da tempo, come riferito in diverse occasioni dal quotidiano Haaretz, si parla di una loro «cessione» all’Anp di Abu Mazen. A Kufr Aqab e di fatto anche nel campo di Shuaffat, il comune di Gerusalemme da anni non garantisce servizi, sanitari e sociali, ai palestinesi che pure in tasca hanno la carta di identità rilasciata da Israele. In quelle zone già interviene l’Esercito e non più la polizia.

Netanyahu farebbe a meno molto volentieri della presenza di quei palestinesi ma si trova a dover combattere contro la destra più estrema, anche nel suo partito (Likud), che denuncia il «tentativo di dividere Gerusalemme» e lo accusa «di aver tradito la promessa elettorale» di tenere tutta la città, anche il settore arabo, sotto l’esclusivo controllo di Israele. Il deputato Israel Katz ha sollevato il tema dei “quartieri arabi” al di là del muro riconoscendo che sono zone ormai abbandonate. «Tuttavia è una decisione di ampia portata, che richiede un referendum (tra gli israeliani, ndr), perché comporterebbe rinunciare a dei territori», ha osservato tralasciando il dettaglio non insignificante che quelle aree per il diritto internazionale non sono parte di Israele ma dei Territori palestinesi occupati nel 1967.

Meir Margalit, uno storico attivista contro la demolizione delle case palestinesi a Gerusalemme, considera la mossa di Netanyahu «solo una trovata politica volta per soddisfare l’opinione pubblica israeliana». «Da un punto di vista giuridico sarebbe un’impresa enorme revocare la residenza a tanti abitanti (palestinesi), senza dimenticare anche le reazioni internazionali» dice al manifesto. «Tuttavia le leggi si possono cambiare – aggiunge – e nel clima attuale è saggio non dare nulla per scontato. L’unica cosa certa è che se Netanyahu e il suo governo decideranno di andare avanti con il progetto, le conseguenze sociali e umane per i palestinesi saranno devastanti».

Intanto Netanyahu continua ad applaudire all’intesa raggiunta nel fine settimana con re Abdallah di Giordania e ripete che sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme, epicentro delle tensioni che hanno innescato la nuova Intifada, Israele continuerà a rispettare lo status quo: i musulmani pregano, i non musulmani visitano. Netanyahu spiega che l’installazione di videocamere sulla Spianata permetterà il monitoraggio costante del luogo santo e di individuare chi incita alla violenza. I palestinesi, lasciati fuori dall’intesa mediata dal segretario di stato Usa John Kerry, sono furiosi. Per il ministro degli esteri Riad al Maliki, le garanzie di Netanyahu non sono credibili perché le videocamere saranno impiegate per arrestare fedeli musulmani con il pretesto dell’istigazione alla violenza. Hamas condanna le intese ed esorta Abu Mazen e re Abdallah a respingerle. In ogni caso è ingenuo credere che l’accordo possa spegnere l’Intifada palestinese cominciata a inizio ottobre in modo spontaneo, fatta di azioni individuali, e che, più di tutto, Abu Mazen non può controllare. Ieri un soldato israeliano è stato accoltellato in modo grave nei pressi di Kyriat Arba, insediamento ebraico in Cisgiordania. L’assalitore, un adolescente palestinese originario del villaggio di Beit Anun, a nord di Hebron, secondo il portavoce militare, è stato ucciso dalle forze di sicurezza.