È la lingua e non un nome a far paese e a dir di più del suo «nom de plume» è l’italianità di Matthew Lee. Mentre, il modo di far musica lo è un po’ meno. Ciò sembra misurarne le potenzialità artistiche e internazionali. Infatti, da questa prospettiva cominciano a vedersi delle nuove trame nel personalissimo wall of sound, mattonato dal modo in cui canta, suona e pesta i tasti del pianoforte, che gli consentono di passare da funambolo della tastiera a musicista totale che non nega le proprie doti performative vocali e strumentali. Peraltro assecondato da un gruppo di musicisti che lo segue da sempre sia dal vivo sia in studio.

Questa inedita situazione ha stravolto la decantata indipendenza distributiva che l’aveva visto farsi le ossa con la sua band e il suo team produttivo nei club e teatri di mezz’Europa (l’appellativo di «Jerry Lee Lewis italiano» però gliel’hanno affibbiato dopo averlo visto esibirsi in tv); ed ora il legame stretto con la Universal e la conseguente uscita per la Decca del quinto album, Piano Man, vede indirizzare l’artista verso una dimensione più adatta alle legittime ambizioni, che stando a sentire anche i produttori della multinazionale di certo e si può scommettere non si fermeranno a Chiasso. Originario di Pesaro, il trentaseienne pesarese, Matteo Orizi, sbanda verso il rock’n’roll di Elvis Presley grazie ai dischi di papà, anche lui musicista, e ad un’innata indisciplina che non gli fa terminare i severi studi al Conservatorio.

L’adozione del nuovo nome rende omaggio a tutta una scia di idoli del rock’n’roll delle origini, dai citati Elvis Presley e Jerry Lee Lewis fino a Buddy Holly e Little Richard, ascoltati e osservati, grazie ai nuovi media, dal giovane pianista con estrema cura e attenzione tanto da assorbirne mimeticamente le selvagge gestualità. Però nella musica di Matthew Lee non c’è solo il rock’n’roll e i fifties; c’è tutta la musica americana del ‘900. Le influenze sono tante e tutte importanti: c’è il blues, il country, l’honky – tonk, il jazz e in ultimo le mai dimenticate scale classiche che ritornano a piè sospinto ed in ouverture di Piano Man con il virtuosismo citazionistico di Rock on Classic e i rifacimenti da Rossini e dal Weill/Brecht dell’Opera da tre soldi.

Tutto sembra dire che non si dimentica da dove si è partiti, segnando così simbolicamente un nuovo inizio. Da cogliere al volo con un album che si presenta per alcuni versi come un concept allestito tra canzoni originali e cover, tenendo a mente le predilezioni del cantante-pianista che si spostano anche al di là degli amatissimi anni cinquanta (sorprendenti gli arrangiamenti di Just way you are di Bruno Mars come di Give me Love di George Harrison), pur avendo delle zone franche identificate dai brani cantanti in italiano: La più bella canzone d’amore (che non avrebbe sfigurato nel sentimentale Sanremo di Baglioni) e la dissacrante La mia Sofia Loren, entrambe scritte da Andrea Bonomo. Piano man è anche una serie di concerti. Il 22 e 23 febbraio l’appuntamento è al Teatro Cyrano di Roma.