Il capitolo «secessione», che le Regioni leghiste (la “Padania” senza più il Piemonte, ma con in più la Liguria) non erano riuscite ad aprire e legittimare in campo fiscale, viene oggi riproposto sulla questione delle «quote» di profughi e migranti da trasferire al Nord dai porti di sbarco; nonostante che a guidare la rivolta sia proprio Maroni, l’ex-ministro che quelle quote le aveva introdotte. Ma questa volta la fronda leghista avrà un impatto maggiore, perché è in perfetta sintonia con le posizioni che i paesi dell’Unione Europea stanno adottando nell’affrontare lo stesso problema: «Teneteveli».

Cioè: anche se, contro gli intenti originari, la missione Triton è costretta a salvarli, i profughi restino là dove sbarcano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dunque più l’unica minaccia per la coesione dell’Unione Europea.

Una governance che si comporta così verso i suoi membri non è più la legittima guida dell’Ue, come non sarebbe più uno Stato unitario quello che accettasse una divisione simile tra le sue Regioni.

Le destre italiane ed europee lo sanno, anche se ancora possono – e torna loro comodo – nascondere a se stesse e agli altri le conseguenze di questa linea di condotta: che è destinare allo sterminio milioni di esseri umani. Cioè, proprio la riproposizione di ciò che la Comunità, poi Unione Europea, ha come sua ragion d’essere originaria: che le tragedie prodotte da due guerre mondiali e dai campi di sterminio «non abbiano a ripetersi mai più». Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può ignorare. Le deboli forze che in Italia e in Europa si battono per un mondo diverso ne devono prendere atto; anche se questa è in assoluto la più difficile delle battaglie che finora non siamo stati capaci di combattere, e soprattutto di vincere.

Che cosa significa infatti quel «teneteveli», rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma anche a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne «ospitano» già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tunisia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, questi, dove non si riesce neppure a fare una conta sommaria degli sbandati (displaced persons) e dove è ormai impossibile distinguere tra profughi di guerra, di persecuzioni politiche, religiose o etniche, di crisi ambientali o di fame e miseria (i cosiddetti migranti economici); anche se l’esito di queste tante concause è quasi sempre una guerra alimentata dal commercio di armi a beneficio di nazioni che le producono.

L’Italia affronta il problema affidandolo a malavita, mafia e malgoverno, gli strumenti tradizionali di gestione di tutte le emergenze vere o inventate: Expò, Mose, rifiuti, terremoti, alluvioni, elezioni, sanità, lavoro nero. Con i profughi, gli affari di mafia e malgoverno si associano a sfruttamento, umiliazione e degrado di coloro che vengono affidati alle loro «cure». Ma anche a crescenti motivi di timore, malcontento, rivolta aperta; a invocazione di poteri forti e soluzioni definitive (o «finali»?); a professioni di razzismo ostentate delle popolazioni locali.

Ma in che modo pensiamo che vengano gestiti in Medio Oriente i campi profughi di milioni di esseri umani senza alcuna prospettiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vorremmo risospingere? E che cosa ci aspettiamo che facciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà «farli sparire», dopo averli torturati, rapinati e violati in tutti i modi: unica alternativa alla mancata possibilità traghettarli in Europa.

Ma lo Stato italiano, lasciato solo a vedersela con flussi crescenti e incontrollabili, diventerà anch’esso destinatario dei respingi-menti: ridotto a trasformare la polizia, come già sta facendo, in «scafisti di Stato», per cercare di far passare la frontiera, in violazione della convenzione di Dublino, al maggior numero possibile di migranti; o a «esternalizzarne» la gestione a organizzazioni alla Buzzi (ma in campo c’è già anche di peggio); o ad abbandonarli per strada, inscenando fughe di massa dai luoghi di detenzione, e creando così situazioni di degrado e di effettivo pericolo con cui alimentare rivolte sempre più diffuse di comunità locali.

Che l’Italia possa rimanere «agganciata» all’Europa in una situazione del genere è difficile. Ma che l’Europa possa continuare a occuparsi di sforamenti dei deficit dello «0 virgola», senza darsi uno straccio di politica per affrontare, in una prospettiva di pacificazione, la belligeranza endemica ai suoi confini, o le derive autoritarie, nazionalistiche e razziste al suo interno, è altrettanto surreale.

D’ora in poi tutti i progetti per cambiare la società, o la distribuzione del reddito, o per difendere lavoro, territorio, scuola, sanità, cultura, diritti, dovranno confrontarsi con il problema dei profughi e dei migranti: per cercare una via di uscita pacifica e negoziata alla crisi geopolitica del Mediterraneo; e per trovare un posto e un ruolo alle centinaia di migliaia che cercano salvezza in Europa.

Una via di uscita sostenibile, accettabile per tutti, che riduca anziché esacerbare le molte ragioni di contrasto tra locali e migranti; che permetta di vivere l’arrivo di tanti profughi non come una minaccia e un peso insostenibili, bensì – lo hanno dimostrato vicende locali esemplari, come quella di Lampedusa – come un’opportunità di nuove forme di convivenza, di crescita culturale, di apertura politica, di un approccio di respiro euro-mediterraneo ai problemi quotidiani: un approccio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro continente e i paesi dell’Africa, del Maghreb e del Medio Oriente.

Con un piano che deve, sì, essere europeo, ma che va messo a punto qui, cominciando a dimostrarne la fattibilità per piccoli episodi: a partire da una vigilanza e una contestazione diffuse e di massa su tutti gli affidi in materia di accoglienza e gestione dei profughi.

Innanzitutto i cittadini italiani non devono essere messi nella condizione di temere che a loro siano riservate meno risorse e meno opportunità di quelle destinate a profughi e migranti: dunque, reddito garantito e piani generali per creare lavoro e dare occupazioni e soluzioni abitative decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità).

Poi, autogestione: è criminale costringere i profughi «accolti» a un ozio forzato di anni e affidare a imprese cosiddette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quotidiana. Assistiti e controllati, profughi e migranti possono gestire da soli risorse ed edifici riservati alla loro permanenza.

Poi devono essere distribuiti sul territorio, con misure per facilitare contatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, attività ricreative, mediazione culturale. Infine devono potersi organizzare anche sul piano politico, valorizzando i contatti tra comunità nazionali già insediate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti.

La costruzione di una identità regionale – di una comunità euro-mediterranea, da fondare sulle macerie dell’Unione attuale, che ha dimenticato le ragioni che l’hanno fatta nascere – ha bisogno di queste cittadine e cittadini, che qui possono mettere a punto un progetto, un embrione di governo in esilio, e una road map per il riscatto politico e sociale dei loro paesi di origine.

È una strada lunga e tortuosa (come lo è stata quella che ha portato alla fondazione dell’Unione Europea), ma ineludibile per non venir sopraffatti da una guerra permanente ai confini dell’Unione e dal trionfo del razzismo al suo interno.

P.S. Questo è un tema ineludibile per la coalizione sociale, un progetto che poteva nascere un anno fa con L’Altra Europa con Tsipras, ma che è stato disatteso a favore di un ennesimo assemblaggio di inutili partitini; ma che per fortuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando.