Come si addice a un reality tv, nelle prime puntate si tratta di sfoltire il gruppo. A un anno dalle elezioni, la competizione più colorita è sicuramente fra i ben quindici pretendenti repubblicani dato che in campo democratico l’investitura di Hillary Clinton dovrebbe essere scontata pur con la sfida da sinistra, robusta ma nominale, di Bernie Sanders.

Per questo sono stati programmati ben 9 dibattiti repubblicani e dodici candidati si sono presentati martedì sera sul palco del Milwaukee Theater dove è andato in scena il quarto. Anche questa volta il gruppo è stato diviso in due, col governatore del New Jersey Chris Christie e il teocon Mike Huckabee retrocessi al «dibattitino» di serie B dalla nuova soglia del 2% nei sondaggi.

Il tema ufficiale del confronto è stata la politica economica e dopo le polemiche per le domande «troppo aggressive» del precedente dibattito, i candidati sono stati interrogati da giornalisti decisamente «amici» di Fox Business News e del Wall Street Journal.

Tutti hanno tentato di superarsi negli «esercizi obbligatori» della policy conservatrice: taglio alle tasse, difesa, eccezionalismo americano, Israele. Tutti si sono scagliati contro gli «eccessi di welfare» che danneggiano innovazione e spirito imprenditoriale (definiti l’«ingrediente segreto» del successo americano da Carly Fiorina).

Ognuno ha inneggiato al governo minimo e inveito contro le assistenze sociali che nuocciono alla tempra nazionale. Fin qui il copione repubblicano «di servizio».

Le prime differenze si sono viste su immigrazione e finanza, temi dove è emersa una effettiva divergenza fra realisti e populisti.

Al momento il favore dei sondaggi è tutto per questi ultimi, in particolare Ben Carson e Donald Trump ancora una volta applauditissimo per le battute sullo «splendido muro» progettato per il confine messicano («proprio come in Israele») e oltre il quale «deporteremo tutti i clandestini».

Il centrista governatore dell’Ohio John Kasich ha replicato che un tale progetto sarebbe puerile e impossibile da applicare, Jeb Bush e Marco Rubio si sono associati ma gli applausi della platea repubblicana sono stati tutti per gli slogan populisti.

Ancora una volta insomma i moderati hanno faticato a competere con le battute a effetto, un problema che continua a interessare soprattutto Jeb Bush, l’ex favorito il cui gradimento sembra diminuire con ogni dibattito. La sua performance è stata oscurata ancora una volta dal golden boy Marco Rubio, che ora sembra il favorito di un ipotetico centro.

La narrazione prevalente è stata ancora una volta la nominale preoccupazione per le sorti della classe media nel nome della quale i repubblicani hanno articolato posizioni paradossalmente «progressiste».

Bush ha sottolineato come la «ripresa» sia costruita su lavoro sottopagato. Fiorina, pur chiedendo di abrogare la riforma sanitaria di Obama, ha denunciato il monopolio degli assicuratori, Rand Paul ha ricordato come gli Usa abbiano creato e armato Al Qaeda. Carson, Cruz e Rubio hanno detto che le grandi banche hanno troppo potere.

Nell’improvvisa lucidità dell’analisi è andato perduto il fatto che in ogni caso le politiche repubblicane in merito assicurerebbero un peggioramento della situazione e attualmente ostacolano ogni tentativo di riforma.

Proprio ieri, il congresso ha negato a Obama la facoltà di trasferire i detenuti di Guantanamo in America e chiudere la prigione. Mentre un tribunale federale ha bloccato inoltre il decreto presidenziale di «amnistia» per 5 milioni di immigrati.

Mancano 12 mesi esatti alle elezioni che sceglieranno il successore di Obama. Fra tre mesi si comincerà a votare nelle primarie (a partire dall’Iowa il primo febbraio).