La bambina dal vestito a quadretti, la frangetta sbarazzina e le scarpette a punta tonda ci guarda, seduta su un gradino di pietra, dalla copertina del programma di sala di un emozionante tour d’addio. Lo spettacolo si intitola Life in Progress, la diva, nonché la bambina, è Sylvie Guillem, artista unica del balletto e della danza mondiale, cinquant’anni compiuti il 25 febbraio. Il tour è partito a marzo, dal Comunale di Modena, domenica scorsa la tappa al Carlo Felice di Genova, il 15 sarà al Lirico di Cagliari. Dopo, in Italia, Sylvie, non la vedremo danzare mai più. Ci viene già la nostalgia.

 
Lo spettacolo replica ancora al London Coliseum dal 28 luglio al 2 agosto, tra le altre città baciate dal giro Sidney, Parigi, Taipei, New York, il finale a Tokyo in dicembre. E poi adieu. Guillem è un’artista decisa, in lei non c’è mai stato spazio per il compromesso. È la mia «life in progress», sembra dirci la bimbetta in copertina, ho danzato per trentanove anni sulle scene, ora farò altro.

 
Sylvie smette ora, e lo fa mentre è in forma strepitosa, un timbro tecnico-interpretativo che la rende, adesso, nel luglio 2015, come nel passato, un’artista che svetta sulla banalità comune. Potremmo parlare per ore del suo fisico mirabile, di gambe e collo del piede unici, ma quel che fa la vera differenza non è la perfezione estetica, ma l’intelligenza dello sguardo sul mondo del balletto e sulla danza, altro che una vita fatta di sole pirouettes.

 
Per il suo tour d’addio, la bimba con la frangetta ha scelto il suo carnet di titoli. Due sono creazioni: un assolo di Akram Khan, un duo femminile di Russell Maliphant. Gli altri due pezzi, uno è a firma Forsythe, l’altro Mats Ek. Sylvie, che è stata étoile dell’Opera di Parigi, nominata giovanissima da Nureyev, che ha danzato con il Royal Ballet per vent’anni e per le maggiori compagnie di repertorio senza mai avere paura di battersi contro la burocrazia dei grandi teatri, che ha ballato di tutto, passando dai grandi classici a Béjart, da Forsythe a Lepage, chiude con i coreografi che oggi più la rappresentano. Ed è una serata di danza contemporanea al top, attraverso cui scoprire ancora sfaccettature inedite, in progress, dell’artista in svolta.

 
Apre technê di Akram Khan, coreografo associato al Sadler’s Wells di Londra, che già anni fa creò per e con Sylvie il duo Sacred Monsters. technê mette in gioco l’abilità, l’arte, la bellezza del saper fare. Khan definisce il corpo di Sylvie «massima espressione di poeticità e trasparenza» e sull’arte della diva costruisce una visione. Al centro della scena c’è un albero luminoso, trasparente, grazie a una scannerizzazione tecnologica. Sylvie appare dal buio, accucciata, e intorno all’albero sviluppa una danza tattile, magica. Le lunghe braccia prendono possesso dello spazio appoggiandosi alla terra, il corpo è prensile, animale, mobilissimo. Un corpo metamorfico, che ci riporta non per l’assunto del pezzo, ma per la qualità magnetica con la memoria a Baryshnikov, visto tanti anni fa, a New York, ne La metamorfosi di Kafka.

 
La musica dal vivo di Ales Slutter arriva in technê come una scia punteggiata da suoni, a rendere denso di eco l’ambiente. Il corpo di Sylvie si distende in un rapporto esplorativo, amoroso verso l’albero al centro. È il pezzo che idealmente sentiamo più vicino, per il rispetto in scena danzato verso la natura, a un tema, che non ispira il pezzo, ma che è molto caro a Sylvie: il sostegno alla battaglia etica di Sea Shepherd, «organizzazione no profit – spiega l’artista – composto per il 99% da volontari, che si batte contro riti barbarici che avvengono lontano dai nostri occhi e dalle nostre vite». Riguardano cetacei a rischio d’estinzione, delfini, squali rigettati in mare, dopo essere stati tragicamente mutilati. Un orrore da conoscere, che Sylvie ci tiene fortemente a segnalare al suo pubblico.

 

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La serata procede con Duo2015. La bimba e la diva non riservano tutto per se stesse: il coreografo è Forsythe, di cui Sylvie ha danzato negli anni moltissimi pezzi, ma qui a interpretare lo storico titolo nato nel 1996 sono due uomini. Il lavoro è rinato per il tour di Sylvie. La musica è del compositore, storico collaboratore di Forsythe, Thom Willems, lo danzano Brigel Gjoka e Riley Watts, una visione sul tema della dualità e della diversificazione nel doppio, che si definisce in rapporto al tempo e allo spazio vuoto.

 
L’inglese Russell Maliphant, di cui Sylvie ha danzato una delle serate più memorabili dell’ultimo decennio della sua carriera, Push, firma per il tour Here & After. E qui c’è la Sylvie più inedita. Danza insieme a Emanuela Montanari, solista del Teatro alla Scala, più volte partner a Milano di Massimo Murru, étoile maschile interprete in anni e anni con Sylvie di una partnership artistica di potente sottigliezza. Basti pensare alla loro L’Histoire de Manon di MacMillan, a Marguerite et Armand di Ashton, a 6000 Miles Away con l’ultimo duo creato per Sylvie da Forsythe. Nel tour però Sylvie, con la complicità di Maliphant, non presenta un passo a due con Murru o un altro danzatore: opta per un duo femminile e l’intesa con Montanari (bravissima) è un cammeo sulle sfaccettature della femminilità, ora più androgina, ora più morbida, ora all’unisono, ora contrapposta, in un percorso magicamente in divenire sottolineato nello spazio dai disegni mutevoli delle luci di Michael Hulls.

 
Per la chiusura Sylvie sceglie Mats Ek e l’assolo icona Bye sulla Sonata per pianoforte op. 111 di Beethoven, nell’interpretazione di Ivo Pogorelich. Sylvie appare dietro uno schermo in bianco e nero, figurina di ragazza, in gonna, camicia e golfino, presto uscirà dallo schermo per danzare la sua vita. Ma cosa separa esterno e interno, spazio privato e spazio pubblico, dove sono gli altri che ci chiamano? Sylvie ritorna nello schermo e se ne va. Bye. Semplicemente bye. Tutti in piedi a Genova per l’applauso finale. Lunghissimo, caldo, come Guillem si merita. Non la vedremo più in scena, ma siamo certi che la sua voce non smetterà di farsi sentire.