Nel mezzo di una crisi economica senza precedenti e in una situazione sempre più incandescente per l’infinita serie di arresti contro ogni forma di dissenso, l’India si è trovata recentemente a celebrare i primi 100 anni di Movimento Comunista. Storia così poco conosciuta benché letteralmemte epica, e che varrebbe la pena studiare per il portato di complessità di volta in volta attraversato: sul crinale delle tante epoche diverse dell’India, nell’infinità delle contraddizioni, con grandi conquiste (sul fronte delle lotte contadine) e ricorrenti impasse, per la difficoltà di tradurre in scontro di classe il millenario sistema delle caste.

E storia rocambolesca fin dagli inizi, per iniziativa di un dissidente bengalese, tale M.N. Roy, nemico giurato dell’Impero britannico per cui perseguitato, esule prima in Indonesia, poi in Giappone, infine in US dove a contatto con altri come lui ‘scopre’ il marxismo – e poco dopo eccolo in Mexico, cronista per El Pueblo, partecipe della fondazione del Partito Comunista Messicano, il primo dopo quello sovietico. Sarà lo stesso Lenin, colpito da tanto attivismo, a invitarlo a Mosca, e poi come delegato indiano alla Conferenza di Tashkent – dove appunto il 17 ottobre 1920 fonda, insieme ad altri sette, il Partito Comunista Indiano, il primo di una lunga serie che avrebbe dovuto svilupparsi in tutta l’Asia (da girarci un serial…).

Quel che succede dopo quella data – la difficoltà di delineare una via indiana al socialismo in una situazione ancora coloniale che diventa ancor più complessa dopo l’indipendenza – è rievocato in un accurato Dossier recentemente diffuso dallo staff di thetricontinental.org, diretto da Vijay Prashad. Opinionista, storico, autore di ben 30 pubblicazioni, direttore appunto di Tricontinental: Institute of Social Research e della casa editrice Leftwords, Prashad è la perfetta incarnazione dell’intellettuale organico a tutto campo, «impegnato a stimolare un dibattito intellettuale al servizio delle aspirazioni popolari» come dice la home page del sito. Condivisione di conoscenza, collettivo sforzo di analisi (infinita serie di webinar e lezioni di storia su You Tube), sguardo a 360 gradi sul mondo.
Con Prashad abbiamo avuto una skype call da New Delhi ed ecco alcuni estratti.

Previsioni di crescita crollate da + 6% nel 2019 all’attuale – 23% nell’arco di pochi mesi; campagne in agonia e settore manifatturiero pure, per la frenata delle economie occidentali (ordini che non arrivano e semmai si cancellano); scontro intercomunitario sempre più impunito nel nome dell’Hindutva e l’esercito cinese che preme sul fronte Himalayano – non molto da celebrare in questi 100 anni di storia, a parte l’eccezione del modello-Kerala, per l’ottima gestione della pandemia…
100 anni possono sembrare un tempo lungo, ma in realtà sono solo un secolo e questo vale anche per la storia del Comunismo su scala globale. Sono passati solo 103 anni da quell’ottobre del 1917 in cui una moltitudine di oppressi nella Russia zarista ha osato l’impensabile – e contando nel contagio rivoluzionario nell’attuale Germania che invece generò in contro-reazione il Nazismo, con l’orrore che ne è seguito.

E poiché da qualche tempo ho modo di osservare l’approccio cinese un po’ più dall’interno (per via di un incarico all’Università di Pechino) sarei tentato di proporre una visuale più sui tempi lunghi, per così dire ‘alla cinese’, invece che di confronto/scontro di sistemi, Capitalismo contro Comunismo e così via.

E dunque: è vero che l’India è in una situazione drammatica – ed è stupefacente che nonostante i danni già fatti (e le promesse non mantenute) del primo quinquennio, il Governo Modi abbia vinto di nuovo le elezioni l’anno scorso. Ma non sarei così pessimista. Siamo il prodotto di un millenario sistema di ingiustizie (il sistema delle caste) che solo da qualche decennio è assurto a rivendicazione sostenibile, sulla base di una Costituzione. E chissà quando riusciremo a liberarci davvero del caste system, anche nelle coscienze e nei comportamenti. Ma intanto la realtà è questa, terreno incendiario, di facilissima polarizzazione per i più diversi fini di potere, manipolazione, sfruttamento di uomini e risorse, come magistralmente ha capito Narendra Modi.

È vero anche che la storia del Comunismo in India ha registrato momenti altissimi, pensiamo alla forza dei movimenti contadini in Bengala, e poi nella regione del Telangana nel centro sud, negli anni successivi alla dichiarazione d’indipendenza, quando il neo-insediato governo di Nehru si trovò a riorganizzare tutto quel che c’era prima, questioni patrimoniali, suddivisione degli stati, modalità di coltivazione, dai contratti di mezzadria al lavoro schiavile alla redistribuzione delle terre, compito immane. E comunque, Nota Bene: in Bengala occidentale, il PCI è rimasto in sella talmente a lungo (oltre 30 anni) da figurare tra i governi comunisti più longevi del mondo – finché è durata. Il Kerala è stato a più riprese (lo è attualmente) un Governo comunista e registra infatti i migliori indici di progresso su tutti i fronti: alfabetizzazione, scolarizzazione, coesione sociale emancipazione femminile, sanità pubblica, disuguaglianze nettamente inferiore che altrove. Per non dire delle mobilitazioni sindacali: ogni sciopero generale è ormai da anni un crescendo di partecipazione, in ogni settore produttivo dell’India, l’8 gennaio scorso abbiamo contato 250 milioni di lavoratori, lo sciopero generale più imponente mai visto sulla faccia del pianeta – il prossimo sarà il 26 novembre e vedremo come andrà, causa Covid. Ma anche adesso, mentre ti parlo, le strade di Delhi, Kolkata, Mumbai, per non dire le campagne dell’India, sono in agitazione permanente, per la richiesta di indennizzi dopo le perdite dei mesi scorsi. Per non parlare dei Movimenti sociali, per l’ambiente, per i diritti di genere, per la libertà di dissenso, in nome di una cittadinanza degna di questo nome e per tutti: l’India non smetterà mai di essere una fiumana di bandiere in marcia o in sit-in – sicuramente difficile da articolare in progetto unitario, ma mai in ritirata.

E al di là dell’India qual è la tua idea di Comunismo per come siano messi ora – e come ne usciamo da questa pandemia…
Fammi dire innanzitutto che Comunismo per me… è una parola. Non una ricetta, non un libro di testo. Ho qui accanto al desk il Capitale di Marx insieme a tanti altri tomi, ma non sono la Bibbia, giusto? E noi Comunisti non siamo una religione, piuttosto una fratellanza di persone che da tempo persegue un sogno di cambiamento, mettendocela tutta, sbagliando, riprovando: un’infinità di momenti, riunioni, iniziative, fallimenti, successi. A volte ha funzionato, a volte no – più spesso è successo il colpo di stato proprio quando cominciava a funzionare, vedi Chavez in Venezuela che con UNASUR stava realizzando l’Unione delle Nazioni sud-americane, progetto d’interscambio economico e tecnologico regionale, sganciato dagli US.

A volte riprende alla grande nonostante le ingerenze, vedi la recente vittoria di Morales in Bolivia, o la richiesta di riscrivere la costituzione espressa dal 77% dei cileni. Il comunismo insomma non è un dibattito né un’ideologia. E un esperimento che di volta in volta si confronta con le condizioni date – e come ho già detto, ultimamente sto guardando con interesse al ‘caso della Cina’ che in 70 anni ha fatto mille errori e continuerà a farne, lungo un percorso che definirei a zig zag, per la frequente inversione di rotta tra un piano quinquennale e l’altro, a partire da Mao e arrivando a Xi Jinping.

E però è riuscita nell’immane compito di sconfiggere quasi ovunque l’abissale povertà degli inizi (un traguardo che l’India si sogna), dopo una Seconda Guerra mondiale durata ben 12 anni, dal 1937 al 1949, e costata 10 milioni di vite umane – mica poco! Il cambio di rotta più sorprendente di tutti, forse, è quello che vedremo dopo l’ultimo Comitato Centrale appena concluso, che ha ribadito con forza la priorità di diminuire le disuguaglianze, diminuendo anche la dipendenza dall’economia globalizzata per evitare gli scompensi riscontrati durante la pandemia (che potrebbe non essere l’ultima, come la Cina ben sapeva già prima di questa).

Discorso lungo, meriterebbe più di un Dossier… quello che voglio dire è che non ha senso pensare a un Comunismo che a un certo punto vince sul Capitalismo, mentre proverei a invertire il ragionamento. Se è vero che dall’inizio della storia dell’uomo lo scontro è stato tra oppressori e oppressi e se è vero che la richiesta di emancipazione, di giustizia, di vita migliore è caratteristica del genere umano, in ogni epoca e sotto ogni cielo – è chiaro a tutti ormai, persino ai suoi fautori, che il Capitalismo non è la soluzione ma piuttosto il problema.

L’incapacità di rispondere ai bisogni più elementari, di casa, salute, lavoro, dignità, alimentazione adeguata (almeno per riprodursi come forza-lavoro), per non dire della promessa di benessere derivante dalla libertà d’impresa, dalla proprietà privata – ovunque la crescente disuguaglianza sta producendo tali scompensi, incertezze, crisi, da minacciare la nozione stessa di democrazia. La frammentazione, l’insicurezza inerente all’economia del profitto, la debolezza di questo sistema è risultata chiarissima nel modo in cui è stata gestita la pandemia. E diventerà ancor più chiara quando alla corsa al vaccino seguirà quella per l’accaparramento di quote di mercato che contribuirà ad ampliare ancora di più la forbice fra nazioni ricche e paesi poveri – e fra ricchi e poveri all’interno di ogni nazione. In questa partita i paesi comunisti sono risultati (chissà come mai) meglio attrezzati di quelli capitalisti: pensiamo a Cuba, che da anni investe sulla salute come progetto di coesione oltre che come bene comune, e che infatti è riuscita a inviare brigate di medici e infermieri ovunque.

Pensiamo al Vietnam, al Kerala, appunto alla Cina, da un pezzo uscita dal lockdown ma perseverante nella prevenzione, massiccia somministrazione di tamponi, monitoraggio, raccolta dati, insomma cura, mentre l’occidente naviga a vista. Sarà interessante vedere l’evoluzione di questo confronto. Ma sicuramente il Capitalismo è arrivato a un tale stadio di disastro, che non si aggiusta più. Si tratta solo di capirlo. E mettersi seriamente al lavoro. Socializzare analisi, ragionamenti, pratiche, argomentazioni, qualsiasi cosa possa contribuire a costruire l’alternativa – e questo è già Comunismo.