In Capitalismo in-finito (Einaudi, pp.198, euro 17), Aldo Bonomi racconta l’ascesa e la caduta della borghesia diffusa del capitalismo molecolare e dei distretti industriali. Dagli anni Ottanta, le sue quattromila imprese sono cresciute grazie al decentramento produttivo e alla riduzione della società italiana al «ceto medio». La crisi ha lasciato sul terreno una moltitudine di disoccupati e partite Iva che formano una sterminata massa di contoterzisti impoveriti. Diversi per status e per culture professionali dai precari maggioritari, ma come loro ridotti a un neo-proletariato definito anche da Bonomi «Quinto Stato».

Categoria altamente composita, cresciuta sull’onda della «terziarizzazione» dell’economia, il Quinto Stato raccoglie tre habitus diversi: quello del capitalismo personale; il lavoro della conoscenza, culturale e creativo; quello dei servizi alla persona e della logistica. Più che rappresentare un soggetto unico, e omogeneo, il Quinto Stato è il nome del processo che ha progressivamente precarizzato i rapporti di lavoro, svuotato i territori e i rapporti produttivi. Questo processo ha investito tanto i precari tradizionali, quanto il lavoro autonomo professionale che Sergio Bologna ha definito di «seconda generazione».

Bonomi non trascura la contraddizione interna al Quinto Stato, tra la lower middle class e il proletariato dei precari che non hanno nulla da spartire con i ricchi professionisti o gli attori della speculazione finanziaria. Tra di loro i legami sono tenui e, quando ci sono, il conflitto è aspro. In questo caso, parlare di «Quinto Stato» significa descrivere un orizzonte che contiene scandalose differenze di classe, ma anche una vita sociale aperta al conflitto.

La plasticità di una categoria che indica una condizione, e non solo un soggetto produttivo o contrattuale, impedisce di identificare il Quinto Stato solo con una classe creativa, un ceto professionale o imprenditoriale. Per chi scrive il problema è emerso scrivendo La furia dei cervelli, un libro lungamente analizzato in Capitalismo in-finito. Oggi sappiamo che il «Quinto Stato» non allude solo allo status di una categoria professionale, ma incarna il futuro di un lavoro che sarà sempre più indipendente, intermittente e autonomo e già oggi indica la condizione di una vastissima porzione della forza-lavoro attiva, al di là delle nazionalità di riferimento.

Questa è la realtà che sta emergendo in una crisi che ha già distrutto oltre un milione di posti di fissi in Italia, ma non ha certamente cancellato la capacità di vivere in maniera operosa. Il Quinto Stato si definisce in base ad una capacità comune agli esseri umani e alle possibilità di affermarla sui territori e nelle città, indicati da Bonomi come i luoghi dove elaborare un progetto di green society alternativo all’Europa dell’austerità.

Rispetto alla (falsa) linearità attribuita al movimento operaio, soggetto omogeneo capace di dotarsi di una rappresentanza univoca nel sindacato e nel partito, il Quinto Stato oggi è un processo discontinuo la cui finalità resta ancora da comprendere. Ciò non toglie che esso abbia caratterizzato i processi produttivi e sociali degli ultimi trent’anni. Politicamente si è espresso nel sindacalismo territoriale della Lega Nord o nel blocco sociale berlusconiano. Il Movimento 5 Stelle, anch’esso può essere considerato un’espressione del Quinto Stato, si limita a sostituire l’identificazione con il Capo Beppe Grillo al legame ancestrale con un territorio o all’ambizione di governare il paese come una rete Mediaset.

Questi limiti non dovrebbero tuttavia distogliere l’attenzione dal fatto che il «Quinto Stato» è il soggetto di riferimento della politica. Bonomi sostiene che il suo futuro resta legato alla possibilità di costruire coalizioni tra le vittime e gli attori di un processo che ha cambiato radicalmente la società italiana. Oggi è chiaro che per realizzarle è necessaria una forza politica (e non solo un partito o un movimento personale) che abbiamo visto risvegliarsi nel lavoro culturale o nella difesa dei beni comuni, con la difficoltà di produrre risultati tangibili.

Lo strumento per attivare una simile forza potrebbe essere il mutualismo. La lunga storia di questo concetto ha portato la sinistra a intenderlo come una forma di solidarietà tra i poveri. Il mutualismo è invece lo strumento utile per creare coalizioni democratiche che abbiano lo scopo di garantire il mutuo soccorso e l’istituzione di nuovi regimi di auto-governo. Sono queste le basi, solidali e non individualistiche, per una riforma universale del Welfare che tuteli le potenzialità della persona e non la sua appartenenza a corporazioni, sindacati o classi sociali.

Questa prospettiva resta purtroppo una prerogativa di minoranze attive e viene ignorata dalla maggioranza del Quinto Stato, sempre più passivo e rancoroso, oltre che impoverito. Ciò non toglie che, per chi fosse interessato a «fare politica», il mutualismo rappresenti un’opzione concreta, oltre che una radicale alternativa all’austero liberalismo europeo, sia esso di destra o di sinistra. E non può essere altrimenti perché il mutualismo esprime l’esigenza di costruire una società dove milioni di persone continueranno a vivere e a lavorare in maniera indipendente e dovranno difendere la propria autonomia contro tutte le forme di sfruttamento e ricatto. Proprio come fece il «Quarto Stato», di cui il «Quinto Stato» rappresenta l’eretico erede.